mercoledì 2 aprile 2014

Jhumpa Lahiri, "L'omonimo" ed. 2004


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                                                                incroci di civilità

Jhumpa Lahiri, “L’omonimo”
 Ed. Marcos Y Marcos, trad. Claudia Tarolo, pagg. 342, Euro 15,50
è stata ristampata una nuova edizione ne Le Fenici


    Non deve essere facile essere un bengalese che vive in America e avere anche un nome insolito, come Gogol Ganguli. Gogol, come lo scrittore russo, peccato che a scuola venisse per lo più storpiato nel canzonatorio Goggles (occhialetti da piscina o da motociclista) o, ancora peggio, nell’ilare Giggles (risatine). Solo all’università qualche professore aveva individuato l’origine giusta del nome. Troppo lungo per Gogol spiegare che era stato chiamato così perché le pagine di un libro di Gogol che si agitavano nel vento avevano salvato la vita di suo padre, quando questi era rimasto vittima di un incidente ferroviario, attirando i soccorsi verso di lui. E Gogol decide di cambiare nome, prima di andare all’università, diventando Nikhil. Intorno a questo personaggio che, cambiando nome, vorrebbe anche assumere un’altra identità e rifarsi una storia famigliare, si svolge il romanzo “L’omonimo” di Jhumpa Lahiri, scrittrice bengalese che vive in America, di cui abbiamo già letto il libro di racconti “L’interprete dei malanni”, vincitore del premio Pulitzer nel 2000. Se i racconti erano storie di persone sradicate dall’India che affrontavano la difficoltà dell’inserimento in un nuovo paese, “L’omonimo” inizia con la stessa problematica, quando i genitori di Gogol si trasferiscono negli Stati Uniti, per spingersi oltre, con Gogol e la sorella Sonia, che sono già degli ABCD, “American-born Confused Deshi”, indiani disorientati nati in America, bilingui perfetti, anche se capaci solo di parlare e non di scrivere il bengalese, turisti nell’India in cui si recano due volte all’anno a trovare i parenti aspettando con ansia il momento di tornare a “casa”. Fa parte del percorso di vita di ogni adolescente, il desiderio di affermare se stessi come altri dai propri genitori e, nel caso di Gogol, la ricerca di un’identità passa non solo attraverso il cambiamento del nome, ma anche attraverso il rifiuto delle feste tradizionali indiane (solo alla fine, quando addobba l’albero per l’ultima volta nella casa che è già stata venduta, si rende conto di che cosa abbia voluto dire, per i suoi genitori, adottare usanze a loro estranee per amore dei figli), del cibo speziato, delle letture consigliate dal padre, dell’amore com’è concepito nelle famiglie indiane.
E Gogol si allontana definitivamente dalla sua famiglia quando si innamora di Maxine, o meglio, quando si innamora di lei e dei genitori di lei, senza rendersi conto di venire inghiottito da loro. Rendendosene conto troppo tardi, quando suo padre muore all’improvviso e Gogol capisce tante cose- troppo tardi. Ed è qui che il percorso di formazione inizia a girare in tondo, ritornando su se stesso, in una riscoperta delle origini: Nikhil sposa una ragazza indiana, con sari rosso e ghirlande di fiori. Finale un po’ debole e scontato per questo romanzo che ha pagine molto belle per parlare della crisi adolescenziale e della formazione sentimentale del giovane Gogol, confermando la qualità della scrittura di Jhumpa Lahiri.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

la scrittrice Jhumpa Lahiri   



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