lunedì 21 aprile 2014

Mo Yan. Intervista allo scrittore 2007

                                                             Voci da mondi diversi. Cina


INTERVISTA ALLO SCRITTORE CINESE MO YAN, Fiera del Libro di Torino, 2007


    In occasione di un suo precedente soggiorno italiano Mo Yan ha già spiegato il significato dello pseudonimo con cui ha scelto di firmare i suoi romanzi. Mo Yan significa, “Colui che non vuole parlare” ed è una sorta di risposta scherzosa alla nonna che lo zittiva sempre. Perché lui invece era un bambino chiacchierino che non taceva mai. E se è difficile vedere il bambino che è stato in quest’uomo di più di cinquant’anni (Mo Yan è nato nello Shandong nel 1955), ci pare invece di poter sentire l’eco di una voce che non tace mai dietro le storie narrate nei romanzi di questo grande scrittore cinese. Storie che parlano di uomini che hanno avuto una vita dura, di miseria e lavoro nei campi, che sono passati attraverso rivoluzioni e guerre, hanno subito o perpetrato violenze tremende. Quello che colpisce in Mo Yan è la capacità affabulatoria, l’andamento fluviale dei suoi romanzi: è come se il suo narrare iniziasse alle sorgenti e poi acquistasse impeto, si diramasse in corsi d’acqua secondari per seguire vicende marginali e poi il fiume narrativo rientrasse nell’alveo ingrossato, arricchito, e straripasse nuovamente, come un fiume in piena. Sono romanzi epici, quelli di Mo Yan. Nel grande afflato narrativo le microstorie dei personaggi si srotolano insieme alla grande Storia della Cina, tanto che viene da chiedersi chi sia il vero protagonista: gli uomini o la Cina? E poi la domanda è inutile, perché sono la stessa cosa.      
  
“Sorgo rosso” (edito da Einaudi, come tutti i romanzi dello scrittore), scritto nel 1988, rese Mo Yan immediatamente famoso, anche per la trasposizione cinematografica con la regia di Zhang Yimou che vinse l’Orso d’oro di Berlino. Una voce narrante che racconta di “mio padre” e “mio nonno”, la storia di un bandito che combatte valorosamente contro gli invasori giapponesi, un colore dominante, il rosso, che è rosso di sangue che macchia la terra, rosso dei tramonti, rosso dei frutti del sorgo che è testimone di ogni scena- dell’incontro passionale tra il nonno e quella che allora era una giovane sposa infelice di un uomo ricco e lebbroso, ma anche della morte della nonna sotto le raffiche dei giapponesi o di altre scene cruente-, un andare vanti e indietro nel tempo, rallentando, indugiando, riprendendo il racconto, come nelle storie orali. L’impressione di stare ascoltando una storia raccontata a voce è quella che abbiamo pure leggendo gli altri due romanzi di Mo Yan, “Grande seno, fianchi larghi” (2002), dove il titolo già ci trasmette l’idea di una figura femminile che è una madrepatria dall’abbraccio poderoso, e “Il supplizio del legno di sandalo” (2005), una vicenda straordinaria di ribellione, d’amore e di punizione che segue l’andamento dell’opera dei gatti, forma teatrale popolare cinese. Abbiamo approfittato della presenza dello scrittore cinese alla Fiera del Libro di Torino per parlare con lui della Cina di ieri e di oggi, del suo stile e dei suoi romanzi.

Sappiamo che cosa vuol dire lo pseudonimo che si è scelto, ma perché ha scelto di scrivere con uno pseudonimo e non con il suo nome?
  Ho scelto uno pseudonimo perché molti scrittori famosi sono diventati tali proprio con uno pseudonimo. Inoltre il nome che ho scelto, Mo Yan, “non voglio parlare”, rimanda anche al periodo in cui sono cresciuto: durante la Rivoluzione Culturale se si parlava troppo e si dicevano cose sbagliate, le conseguenze non erano piacevoli per sé e per la propria famiglia. Una delle cose che papà e mamma mi ripetevano spesso era proprio, ‘non parlare’, e quindi ho preso spunto da quello che mi dicevano i miei genitori.  

La sua era una famiglia di contadini, come mai ha scelto di entrare nell’esercito? E come è arrivato alla letteratura, a diventare uno scrittore?
     Una delle cose più evidenti in Cina è la grande differenza tra la città e la campagna. In campagna la gente è meno evoluta, i giovani hanno sempre voglia di andare in città. E poi, una volta, entrando nell’esercito era più facile poter andare all’università. Anche perché nell’esercito, se uno è volonteroso, ha più tempo per studiare. Oltre al fatto che in campagna c’era poco da mangiare e faceva freddo: l’esercito offriva una soluzione per queste cose. Con il tempo libero ho iniziato a scrivere, anche perché l’esercito cinese ha pure una sezione artistica importante: ci sono cantanti e ballerini, ma anche scrittori. Per me è stato naturale prendere questa strada. Certamente c’erano limitazioni in quello che si scriveva, si era spinti a parlare bene dell’esercito. Non avevo questa capacità, di scrivere quello che non pensavo. Per questo più di dieci anni fa ho lasciato l’esercito, per continuare la mia strada.

Quando le capita di tornare nel villaggio in cui è nato e cresciuto, osserva un cambiamento nelle condizioni di vita dei contadini che si avvicini a quello che è avvenuto nelle città?
    Ogni anno torno nel mio villaggio, tutti i miei parenti abitano là, mia madre è morta ma mio padre vive laggiù. Di fatto le prime riforme sono avvenute nelle campagne: in primo luogo sono state abolite le comuni, quindi si è tolta la forzatura dell’obbligo del lavoro comune e c’è stata una ripresa del lavoro individuale. Sicuramente è impossibile anche fare il confronto con gli anni ‘80: non esiste un paragone. In questi ultimi cinque o sei anni i cambiamenti sono stati ancora maggiori. Anche perché ormai si lavora con i mezzi meccanici . Tuttavia c’è anche uno spopolamento delle campagne: sono molti i giovani che vanno in città. E’ la mentalità contadina: guadagnano meno, ma vogliono muoversi e vedere il mondo.

Il primo dei suoi romanzi, “Sorgo rosso”, ha una voce narrante in prima persona che parla di “mio padre” e “mio nonno” e racconta delle vicende drammatiche durante l’invasione del Giappone: sono state le vicende vissute dai suoi famigliari?


     Alcune sono vicende vissute dai miei famigliari, la maggior parte però riflette una realtà ben più ampia, quella dei contadini di quell’area.

C’è l’immagine dominante del sorgo nel romanzo e del colore rosso: quali altri significati hanno, oltre ad essere una pianta e il colore dei frutti della pianta?

     Sì, l’immagine del sorgo rappresenta una visione più vasta: il sorgo rosso è il cereale più coltivato nel Nord della Cina e rappresenta tutti i contadini cinesi. Il sorgo ha un grande spazio nel cuore dei contadini cinesi, è come il grano qui da voi.

A proposito di “Sorgo rosso”, che cosa pensa del film che ne è stato tratto? A mio parere è solo una pallida e noiosa resa di uno splendido libro.   

     Condivido la sua opinione: è stato un problema tecnico, hanno fatto quello che hanno voluto, con il film. D’altra parte credo che qualunque romanzo venga sacrificato se trasformato in un film. Bisogna poi aggiungere che in Cina il film doveva passare attraverso la censura ed era necessario attenersi alle loro regole. Per un romanzo è più facile sfuggire alla censura, ci sono cose che nello scritto sono ammesse. E poi, molto spesso, chi fa il censore, guarda il film e non legge il libro.

I suoi romanzi abbondano di immagini molto forti, ad esempio le torture di cui si parla ne “Il supplizio del legno di sandalo” sono terrificanti. Perché ha scritto un romanzo che contiene tanta violenza?
     Per questo romanzo ho scelto di scrivere in maniera particolare, in uno stile descrittivo. E’ una specie di documentario dove ho scelto di scrivere secondo la tradizione dell’opera locale, perché in Cina le torture, le esecuzioni, sono sempre state viste come uno spettacolo. Esiste una forma di collaborazione tra il giustiziato, il boia e il pubblico. Ho voluto essere duro per vedere se mi riusciva di suscitare una reazione: come si può pensare ad una cosa così tremenda come ad uno spettacolo?

Ma queste esecuzioni pubbliche non erano intese come ammonimento?
     Lo Stato metteva in atto queste forme di giustizia in pubblico per spaventare la gente, ma la gente le recepiva come qualcosa di diverso, come uno spettacolo, un passatempo. Credo che sia accaduto ovunque, pensiamo alla Francia e alla ghigliottina: il pubblico guardava e non si poneva il problema di che cosa ci fosse dietro tutto questo. Eppure chi va a vedere è brava gente: perché vanno? Ecco, scriverne è un modo per far riflettere.

“Il supplizio del legno di sandalo” segue lo schema dell’opera dei gatti a cui il romanzo spesso si riferisce: che cosa è di preciso l’opera dei gatti? Ed è ancora popolare in Cina?

     L’opera dei gatti esiste ancora nel mio villaggio, Gao Mi, nello Shandong, che si trova nel Centro Nord della Cina. L’opera dei gatti è una piccola branca dell’opera, sviluppata solo in quell’area. E’ molto basilare, con costumi classici, le maschere, uno strumento musicale particolare che viene chiamato “l’arpa del gatto”. Un tempo era uno spettacolo improvvisato, ora inizia ad esserci un copione. Si è evoluta, non è più l’opera dei gatti, sta diventando l’opera di Pechino.

Ci sono degli scrittori nella letteratura cinese che lei considera, in qualche maniera, suoi “maestri”? E, nell’epoca della sua formazione letteraria, pervenivano in Cina opere di scrittori stranieri?
     Sì, c’è uno scrittore cinese che considero il mio “maestro”: Pu Song Ling, dell’epoca Ching- più o meno 200 anni fa. Scriveva storie di volpi e fantasmi. Lo ammiro per le storie che racconta e poi c’è dell’altro: le storie di Pu Song Ling sono storie che avevo già sentito raccontare dai miei genitori e d’altra parte anche Pu Song Ling le aveva apprese dalla tradizione orale dei contadini.
Nella mia formazione culturale non ho avuto modo di leggere molto- erano gli anni della Rivoluzione Culturale. Poi, negli anni ‘80 ho iniziato a leggere autori stranieri: mi pareva di essere un affamato che non mangiava da secoli, divoravo i libri. Avevamo molte traduzioni: tra gli autori italiani il mio preferito è Calvino, ma ammiro moltissimo anche “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, e poi Umberto Eco.

Il presidente Mao aveva svilito l’antica cultura cinese, c’è stato un recupero di quella cultura nei tempi moderni?

    Di fatto sì, c’è una gran volontà di tirare nuovamente fuori la vecchia cultura cinese. I giovani sono alla ricerca di tradizioni e desiderano ritrovare la vecchia cultura. E questo non solo nelle università, anche nelle scuole elementari si è ripreso ad educare e ad insegnare come nel tempo passato.

I suoi romanzi sono tutti ambientati in un’epoca passata: pensa di scrivere, o ha già scritto, un romanzo dei nostri tempi?
     Quello che è stato pubblicato da poco in Cina parla di storia odierna, in Italia uscirà l’anno prossimo, credo. E’ la storia di un proprietario terriero fucilato negli anni ‘50. Ma era innocente e in Cina si crede nella reincarnazione e quest’uomo si riincarna molte volte, come maiale, come bue e poi come scimmia, e racconta la sua storia vista attraverso gli occhi degli animali. E’ un libro più buffo e leggero degli altri precedenti.

E che cosa pensa del cambiamento che è avvenuto in Cina, del capitalismo, delle trasformazioni della società? Come si trova in questa nuova società?
     Non riesco a capire come sia stato possibile un cambiamento così veloce. Sono uno scrittore e scrivo storie di uomini, guardo la società e vedo i problemi di corruzione, gli sprechi di materie prime, come viene rovinato l’ambiente, ma, nonostante questi problemi, la società si evolve rapidamente. Non saprei proprio come rispondere, non me lo spiego, faccio fatica ad afferrarlo.

C’è qualcosa che le manca, del passato?
    Mi mancano la natura e la semplicità della vita. Ho pensato a lungo a questa forma di nostalgia, e ho deciso che forse non è tanto l’ambiente che mi manca, ma è la gioventù di cui sento la mancanza. Anche se allora si mangiava di meno, si parlava di meno, si avevano vent’anni: ora vivo meglio ma non sono più giovane. Anche quando guardo i film vecchi, degli anni ‘50 e ‘60: sì, sono semplici, però mi fanno venire la nostalgia. Di fatto, quando vedo un film sull’esercito, non vedo il film, ma me stesso da giovane.

Avendo in mente i suoi romanzi, l’idea che ne deriviamo è che più che i singoli personaggi, il vero protagonista dei libri sia la Cina: è la Cina che vuole dipingere in realtà, nei vasti affreschi dei suoi romanzi?
     Quello che dice è in parte vero: è una mia speranza, di spiegare parte della Cina attraverso i personaggi che incarnano la situazione cinese.

l'intervista è stata pubblica sulla rivista Stilos


                                                                                                        

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