lunedì 31 marzo 2014

Binyavanga Wainaina, "Un giorno scriverò di questo posto"

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                                                          incroci di civiltà

Binyavanga Wainaina, “Un giorno scriverò di questo posto”
Ed. 66thand2nd, trad. Giovanni Garbellini, pagg. 289, Euro 18,00
Titolo originale: One Day I Will Write About This Place


Ora è crollato il Muro di Berlino e le nostri grandi università, dove i ricchi e chi usciva dalla povertà erano finalmente pari, sono sparite.. anche quelli che hanno i soldi non possono permettersi granché. Non erano preparati a questo. Le cose accadono all’improvviso. In tutto il mondo ci sono rivolgimenti enormi da un giorno all’altro. Prevale un senso di panico. E’ possibile credere a quello che promette Geldof, cioè che l’Africa finirà per sprofondare in un buco enorme. Il progetto volto a creare gente come noi sta finendo. Adesso, chi ha cresce, e chi non ha resta indietro. Chi ha se ne può andare. Alcuni genitori vendono i loro averi più preziosi per mandare i figli all’estero.

     Stephen ne “Il ritratto d’artista da giovane” di James Joyce, il protagonista del delizioso “Il cane che abbaiava alle onde” di Hugo Hamilton: ci ricorda queste voci quella di Binyavanga Wainaina nella parte iniziale del suo libro di memorie, “Un giorno scriverò di questo posto”. Ed è singolare che ognuno di questi tre scrittori abbia cercato la sua strada lontano dal luogo dei ricordi per poi tornare, o non tornare, come Joyce che visse per sempre lontano dalla sua Irlanda per scriverne però in tutti i suoi romanzi. Come ne scrive Wainaina in questa autobiografia che è, allo stesso tempo, la sua storia e quella del Kenya fra gli anni ‘70 e il tempo attuale.                                         
    
  Binyavanga ha sette anni nel 1978, quando iniziano i suoi ricordi. Il fratello maggiore ne ha undici, la sorellina Ciru cinque e mezzo ma è così intelligente che frequenta la stessa classe di Binyavanga. Nascerà poi un’altra sorellina ma è con Ciru che Binyavanga resterà più legato, come negli anni in cui pensava a lei come alla sua gemella. Un nome insolito, Binyavanga, e non solo per noi europei- lo scrittore ci racconterà di uno scontro verbale al check-in di un aeroporto perché il suo nome aveva destato sospetti sulla sua provenienza.  Così come ci racconterà dell’usanza in Kenya di dare al  secondogenito il nome del nonno materno, senonché a questi, essendo ugandese, era parso strano avere un nipote che si chiamava Binyavanga, come lui. In un paese dalle molte tribù che hanno un grande peso nella vita politica, Binyavanga Wainaina è figlio di padre kenyota e madre ugandese, la sua lingua madre è lo swahili e naturalmente conosce l’inglese, visto che il Kenya è stato colonia britannica dalla fine dell’800 fino all’indipendenza nel 1963. Soltanto nel 1995, per la prima volta, Binyavanga si reca in Uganda con la famiglia, per festeggiare l’anniversario delle nozze dei nonni. “Sono cresciuto ascoltando i suoi miti, le sue leggende e i suoi orrori, narrati con l’intensità che sa trovare soltanto chi vive in esilio”, e  questo raduno,  che vede tornare figli e figlie dalle diverse parti del mondo dove sono approdati, è una grande emozione, è l’esaltazione della forza dei legami famigliari. Uganda, Rwanda, Sudan, e poi il Sudafrica dove Binyavanga va a studiare: da queste pagine in cui troviamo, mescolate, esperienze diverse, esce fuori il profumo, o il puzzo, del calderone dell’Africa. Soltanto la prima parte del libro ha pagine leggere, come si addice ai giochi dell’infanzia.
il presidente Moi
Poi l’atmosfera si fa più cupa, con la morte del presidente Kenyatta e l’elezione di Moi il cui governo diventa sempre più ambiguamente corrotto, mentre sempre più suoi fedeli o leccapiedi si fanno strada nella società del paese. Crolla il livello dell’istruzione pubblica, il merito non è più il passaporto per l’ingresso nelle scuole migliori, Binyavanga si iscrive all’università di Transkei in Sudafrica. E si perde, come avviene spesso ai giovani universitari di qualunque paese. Sono pagine in cui ci parla di folli letture, di isolamento in una stanza sporca di cui non paga l’affitto, di droga, di una vergogna nascosta per cui non ha il coraggio di farsi vivo con i genitori. Si parla però anche di politica, della fine dell’apartheid, di Mandela libero, di Moi che continua a imperversare in Kenya. E anche di musica, di Brenda Fassie, la scandalosa cantante in cui ‘sesso e lotta politica si incontrano’. Si ricorda l’insurrezione dei Mau-Mau, la montagna di cadaveri nella Zululand. Quando Binyavanga ritorna in Kenya, il contrasto non potrebbe maggiore. C’è una pesante aria di stanchezza nel paese: “Dopo gli scioperi e le battaglie del Sudafrica, che coinvolgevano tutti, questo luogo sconfitto è difficile da reggere.” E tuttavia per lui il ritorno è una spinta a cambiare, a raddrizzarsi e riprendere il controllo della sua vita tenendo d’occhio la meta: diventare uno scrittore.

Mombasa
      Non è un libro facile, “Un giorno scriverò di questo posto”. Perché non è facile parlare di sé e del proprio paese quando, pur essendo una personalità di rilievo come è diventato Wainaina, si è ancora giovani. Forse mancano le distanze da quanto si è vissuto, forse c’è troppo da dire e ci sarebbe troppo da spiegare per lettori che non sono familiari con la storia sociale e politica del Kenya. Intuiamo pure, leggendo il libro, che Wainaina deve aver piegato la lingua per un suo uso originale che noi non riusciamo a cogliere interamente nella traduzione. 

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

lo scrittore Binyavanga Wainaina  

Intervista a Binyavanga Wainaina

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INTERVISTA A BINYAVANGA WAINAINA, autore di “Un giorno scriverò di questo posto”

  Incontrare lo scrittore kenyota Binyavanga Wainaina, sentirlo parlare- è come leggere il suo libro. Perché parla con la stessa foga e  la stessa vivacità che affiorano in ogni pagina di “Un giorno scriverò di questo posto”. Si ferma a pensare un attimo, dopo ogni domanda, a raccogliere le idee, e poi si getta a capofitto nella risposta. E non risponde solo con le parole: l’espressione del suo viso mobilissimo e gli occhi parlano insieme a lui.      

 Non conosciamo l’Africa. Abbiamo bisogno di un interprete per conoscere l’Africa. Parliamo del tribalismo, prima di tutto. Quanto serio è il problema del tribalismo in Kenya? Nel suo libro Lei sembra attribuire l’alto grado di corruzione in Kenya al tribalismo: ma non è forse dappertutto la corruzione, in Egitto, in Italia, come in Kenya?
     Direi che forse è l’opposto: non è il tribalismo ad essere causa della corruzione ma è una conseguenza di questa. In Kenya ci sono 43 micronazioni che hanno chiesto di entrare in una nazione. La domanda è: quanto ci fidiamo del nostro futuro? Il tribalismo aumenta o diminuisce a seconda delle speranze e dei timori che ciascuno nutre nel futuro. Stiamo vivendo un momento al contempo tremendo e meraviglioso. Ci sono voluti cinque anni per la implementazione della nuova costituzione. Adesso ci sono 47 contee in Kenya, ciascuna con il suo bilancio- sia le speranze sia i timori sono grandi.

Kikuyu, luo, masai- per noi sono solo nomi. Qual è la differenza? E’ una differenza etnica?
    Ci sono delle teorie secondo cui le tribù sono un’invenzione coloniale. In Africa si parlano 3000 lingue, ci sono stati più grandi dell’Europa con migliaia di lingue oppure stati scarsamente popolati ma con tante lingue. Che cosa è una tribù? L’impressione è che, per necessità burocratica, si inventi la necessità di una tribù- si cerca la tribù che fa al caso.
Non appena una élite di classe media si afferma, acquista degli interessi e cerca di difenderli. La maggior parte degli Stati ha negoziato i confini nello stesso tempo e questi confini sono stati stabiliti durante incontri che hanno avuto luogo in Europa tutti contemporaneamente.
Masai
In Kenya ci sono tribù come i luhya con 16 lingue, alcuni non si capiscono tra di loro, esistono come tribù perché hanno un’amministrazione comune. Pur nelle diversità queste tribù erano unite dall’amministrazione, e l’unità delle tribù era derivata dal fatto che ciascuna andava a negoziare la posizione come blocco unico. E’ importante sottolineare che la costituzione è stata data al popolo africano 50 anni fa. Negli ultimi 10 anni abbiamo visto un processo di discussione, di riscrittura  della costituzione africana, ma ciò avviene dopo 50 anni di guerre, di ricerca di disegnare i confini di ciascuna nazione africana.

Ogni tribù concorre alle elezioni con un programma politico diverso?
     La risposta non è semplice, perché è un contesto in continuo movimento. Oggi la politica gira intorno ai kikuyu. Sono il blocco di voto più grande ma non hanno la maggioranza, quindi nessun gruppo ha la maggioranza assoluta. I kikuyu hanno una classe sociale e una classe commerciale vasta e ben organizzata, hanno un grande potere economico. Al momento dell’indipendenza i kikuyu hanno controllato la presidenza, poi l’hanno persa, ora  l’hanno di nuovo con Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente Jomo Kenyatta.
Uhuru Kenyatta
I kikuyu, però, hanno anche perso molta terra nell’epoca coloniale e, come conseguenza, si sono dispersi in una specie di diaspora in Kenya, occupando altre terre. Si sono insediati nelle terre dei colonizzatori- che erano state per lo più dei masai- le hanno coltivate con un accordo per cui consegnavano parte del prodotto come tributo. Ma i britannici non hanno gradito affatto l’intraprendenza dei kikuyu e hanno reclamato una regolamentazione più ferrea per impedire ai kikuyu di produrre di più. I kikuyu sono un’élite sociale e governativa per lo più conservatrice. Il loro pensiero è reazionario, proteggono i loro interessi che non coincidono né con quelli degli altri gruppi tribali né con la maggioranza popolare.
Quando venne data la costituzione, conteneva anche la devoluzione di poteri distaccati dal governo centrale. Implicava la devoluzione di risorse finanziarie, ma i presidenti al potere hanno voluto ricentralizzare tutto. Ora la questione costituzionale ruota intorno alla devoluzione.

Kikuyu
Nel libro si parla spesso dei paesi confinanti con il Kenya- Uganda, Sudan, Sudafrica, Tanzania. Quali sono i rapporti del Kenya con gli stati confinanti?
    Per dieci anni dopo l’indipendenza, il Kenya, l’Uganda e la Tanzania furono una federazione: avevano una linea ferroviaria in comune, una compagnia aerea in comune, sistema educativo in comune così come tutte le infrastrutture. Poi la Tanzania diventò socialista, il Kenya capitalista e l’Uganda si diede alla guerra negli anni ‘70. Io sono pan-africano, quello che si è visto negli ultimi anni di stabilità ha a che fare con gli accordi: senza l’IGAD- la lega di alcuni stati africani- non ci sarebbe pace né in Sudan né in Somalia. L’economia in crescita è dovuta a questa stabilità. Gli stati africani hanno scoperto la cooperazione e che lo sviluppo economico viene favorito dalle alleanze.

Lei ha scritto un saggio che ha avuto molta risonanza, “Come scrivere dell’Africa”, intendendo come non si dovrebbe scrivere dell’Africa. Agli occhi degli occidentali l’Africa è un paese esotico. Ci sono molti scrittori bianchi che ambientano i loro romanzi in Africa e la loro rappresentazione dell’Africa ha colori di certo più vistosamente sgargianti. Dovrebbero evitare di usare lo sfondo africano?
    No, no, gli scrittori bianchi dovrebbero scrivere e sono liberissimi di scrivere. Ma NON scrivono dell’Africa. Quello che è importante è che, se la letteratura comunica qualcosa, questa NON è una comunicazione di culture, NON c’è MAI stata comunicazione tra Africa e Europa. Sia chiaro che non vogliamo scuse,  perché chiedere scusa significa perpetuare questo rapporto tra Europa e Africa all’insegna dell’amore familiare. Io dico all’Europa, ‘cresci e, quando sarai cresciuta, vieni e parliamo’. Non sono risentito perché Nadine Gordimer e Doris Lessing hanno acquistato grande fama: gli inglesi hanno capito che il mio saggio era un pezzo umoristico, non era un brano per suscitare la reazione, ‘come dobbiamo scrivere?’.

Mi sono piaciuti molto, nel suo libro, i riferimenti alla musica e ad altri scrittori africani, a Brenda Fassie e a Ngugi wa Thiong’o. Che cosa rende la musica africana diversa dalla musica afro-americana?     
Brenda Fassie
    Negli anni ‘50 e ‘60 molta della musica africana fu influenzata da quella cubana e dal jazz. Poi, attraverso la chiesa pentecostale, subì l’influenza del genere Gospel. Ma arrivò anche l’influenza del blue grass e del country. I kikuyu fanno musica di tipo americano. Ma adesso la musica dominante è quella della Nigeria. Negli ultimni cinque anni si sono investiti molti soldi in Nigeria per produrre un pop nigeriano. C’è un mercato di 150 milioni di persone- hanno investito in musica originale, che viene ascoltata in tutta l’Africa.

Dice spesso, nel libro, di essere un lettore vorace: qual è il miglior scrittore africano secondo Lei, quello di cui consiglierebbe la lettura, oltre a Ngugi wa Thiong’o? E quali sono gli scrittori stranieri che più ama o ha amato leggere?

    Lo scrittore africano che più mi ha influenzato negli ultimi cinque anni è Kojo Laing con “Search sweet country”, a mio parere il romanzo africano più importante in assoluto. Tra le mie letture preferite ricordo Bruno Schulz, Thomas Hardy, George Eliot, Sartre. Ho amato Nadine Gordimer e mi piace molto Haruki Murakami. Ma non sei tu a trovare i libri, sono i libri che trovano te.   

domenica 30 marzo 2014

Varujan Vosganian, "Il libro dei sussurri" ed. 2011

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                                                    Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
              
Varujan Vosganian, “Il libro dei sussurri”
Ed. Keller, trad. Anita Natascia Bernacchia, pagg. 470, Euro 18,50

     Leggiamo lo straordinario libro di Varujan Vosganian e pensiamo, ‘è una folla di ombre che sussurrano, quella che popola le pagine di questo “Libro dei sussurri”.’ Subito dopo ci correggiamo. No, è una folla di uomini e donne che paiono vivi e balzano fuori dalle pagine, e, se la loro voce sembra un sussurro, è perché ci arriva da un tempo lontano, soffocata dal fragore della Storia.
    “Il libro dei sussurri” è l’epopea degli armeni, è la storia della famiglia dello scrittore (che è anche un economista, matematico, professore universitario, è stato Ministro dell’Economia e del Commercio in Romania ed attualmente è senatore del Parlamento), di amici e conoscenti, della Romania stessa durante il tremendo secolo breve pieno di orrori. Ma è una storia che valica i confini della Romania, perché gli armeni, come gli ebrei, sono sempre stati ‘erranti’, sospinti da persecuzioni e intolleranza. Come gli ebrei, anche gli armeni sognavano una patria armena- quel triangolo di terra schiacciato tra altri stati e lontano dal mare che sarebbe diventato una repubblica socialista sovietica nel 1936, acquistando l’indipendenza solo nel 1991. Un’Armenia in cui sarebbero stati incoraggiati (forzati?) ad emigrare alla fine della guerra ma in cui non avrebbero affatto trovato l’abbondanza promessa. E tuttavia le pietre dell’Armenia erano meglio delle terre gelate della Siberia, meta delle deportazioni del 1949.  

   Convogli, deportazioni, marce forzate- l’orrendo vocabolario dei genocidi del secolo XX. L’eccidio degli armeni ad opera dei turchi nel 1915 occupa la parte centrale del libro di Varujan Vosganian. E le tappe del viaggio nell’inferno, di campo in campo, fino al cuore del deserto della Mesopotamia, sono come una discesa di girone in girone: settimo e ultimo girone, Deir-ez-Zor, la fine di tutto, il luogo in cui nessuno piangeva più lacrime ma il pianto veniva fuori ‘come un gemito ininterrotto a bassa voce’. Il numero dei morti è controverso. I turchi hanno sempre negato che si trattasse di genocidio- 300.000 i morti, secondo loro. Due milioni e mezzo, secondo gli armeni. Un milione e trecentomila, secondo gli storici britannici. Importavano i numeri a Sahag Sheitanian, il ragazzino che portava un messaggio scritto sulla schiena e che sarebbe vissuto per un periodo della sua vita con il nome di Yusuf, datogli dagli arabi che lo avevano salvato?   

    Sahag Sheitanian è uno dei tantissimi nomi che ricorrono spesso in questo libro che spazia leggero avanti e indietro nel tempo, che racconta di cose che lo scrittore ha sentito raccontare da bambino, che mescola fatti reali e altri che hanno il sapore della leggenda- come le armi nascoste del generale Dro- inserisce storie dentro altre storie. E, soprattutto, salva i morti dall’oblio. Sahag era il genero di nonno Garabet, la figura più imponente di tutto il libro, forse perché la più amata e quella che riesce a farsi amare di più da noi. Nonno Garabet che è il cultore della memoria, il destinatario dei pacchetti che contengono i cavallini di legno- e lui sa che cosa significa il messaggio. Ogni cavallino è un morto (e una storia), vendetta eseguita. Ogni cavallino simile al giocattolo del fratellino deportato di Misak Torlakian, uno degli agenti della missione Nemesi, del tipo di quella di Simon Wiesenthal circa venticinque anni più tardi, per non lasciar impuniti i responsabili dei massacri degli armeni.
    “Il libro dei sussurri” non si può e non si deve riassumere. E’ così vasto, così ricco, così speciale che si deve leggere ascoltando i sussurri, le voci, le grida di coloro che continuano a vivere nelle parole dello scrittore. Il quale è qualcosa di più di un semplice narratore. Varujan Vosganian entra nelle storie che racconta, le risvolta, ce le presenta come le ha vissute lui da bambino- attraverso i francobolli, ad esempio, ogni francobollo un armeno in esilio.

Un libro indimenticabile per non dimenticare.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

lo scrittore Varujan Vosganian      

Festival Internazionale di Letteratura a Venezia 2/5 aprile 2014

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Dove, se non a Venezia, si poteva svolgere un festival della letteratura che si presenta come "Incroci di civiltà"? perché da sempre la città lagunare è stata un crocevia di culture, di persone, di lingue e di tradizioni. L'evento si aprirà con un audiodramma di Massimo Carlotto, seguiranno- fittissimi- gli incontri con 22 scrittori provenienti da ogni dove. Per il programma completo (invidio chi potrà partecipare) si può consultare internet, io mi limiterò a riproporre i libri che ho già letto degli scrittori invitati al festival. Due di loro, lo svedese Arne Dahl e Raja Alem, dell'Arabia Saudita, si possono ritrovare nei post già pubblicati (Dahl nel mese di febbraio e Raja Alem pochi giorni fa). Gli altri, a seguire e secondo la data di presenza, saranno: Varujan Vosganian (Romania, 3 aprile), Binyavanga Wainaina (Kenya, 3 aprile), Olivier Truc (Francia/Svezia, 3 aprile), Abdolah Kader (Iran/Olanda, 4 aprile), Daniel Mendelsohn (Stati Uniti, 4 aprile), Jhumpa Lahiri (Stati Uniti, 5 aprile). Ho appena letto che l'incontro con Binyavanga Wainaina è stato annullato ma proporrò ugualmente il mio incontro con lui durante il festival della letteratura di Mantova nel settembre del 2013.

Ca' Foscari, dove avranno luogo gli incontri del festival

venerdì 28 marzo 2014

Luciana Capretti, "Tevere"

                                                                        fresco di lettura

Luciana Capretti, “Tevere”
Ed. Marsilio, pagg. 220, Euro 17,50

    1975. Roma. Piove. Fa freddo. Una donna esce di casa, ha indosso solo una sottile camicia da notte e un finto pellicciotto. Prende un taxi, si fa portare in una strada dove vede suo marito incontrare l’amante. Sconvolta, scende lungo viale Trastevere finché arriva al fiume. Un’altra donna, una brasiliana che sta lanciando nell’acqua delle rose bianche per adempiere un sorta di magico rito, la vede esitare. Della donna col pellicciotto, Clara Faiola, verranno trovati solo i documenti, stranamente asciutti. Del corpo, nessuna traccia.

    Rimase lì, sull’orlo, a lungo. Forse il tempo di un’ora o di una sera o di una notte. Di certo aveva smesso di piovere da parecchio perché si era asciugata con il vento freddo e completamente intirizzita quando sentì la sua voce bisbigliarle Via, devi andare via. Allora si mosse, fece pochi passi sui lastroni grigi verso l’argine, aprì la borsetta, prese le Nazionali il borsellino e la carta di identità e si chinò per posarli con cura all’inizio delle scale che scendevano in acqua. L’acqua era nera e maestosa.

    Luciana Capretti ci racconta una storia vera intrecciata alla finzione in questo suo secondo romanzo “Tevere”, proprio come nel precedente “Ghibli” la trama era un miscuglio di invenzione narrativa e di vera storia della sua famiglia, espulsa dalla Libia. E mi colpiscono i due titoli che hanno qualcosa di simile, aria e acqua, il vento del deserto e il fiume di Roma che travolgono il destino dei personaggi. Al posto della scansione temporale di date che c’era in “Ghibli”, tre colori distinguono tempi diversi- significativi, memorabili. Giallo, bianco, nero. Oppure nell’ordine inverso, con il bianco sempre nel mezzo, il bianco che è tutti i colori per rappresentare la breve vita felice di coppia di Clara e il marito, il bianco come le lenzuola dei letti d’ospedale, come il camice di dottori e infermiere per l’entrare e uscire di Clara da ospedali e case di cura, dopo i diversi tentativi di suicidio (uno addirittura con la bimba appena nata in braccio), per curare la depressione con la terapia tremenda dell’elettroshock, più devastante ancora della malattia.
Giallo è il colore dell’enigma, del filone di indagine e di ricerca della donna scomparsa, della trama con il commissario di polizia che si intestardisce nel voler capire che ne sia stato di Clara, perché sia arrivata al punto di disperazione da voler abbandonare tutto, soprattutto quei figli che tanto amava e che la ricambiavano con uguale affetto. Nero è il passato, la giovinezza di Clara a Novara. Nero perché segnato da una tragedia- la morte di una sorella, nero perché offuscato dalla grave e debilitante depressione della madre, e poi nero perché erano gli anni del fascio e il padre di Clara era un fascista convinto, orgoglioso di indossare la camicia nera. E Clara si era iscritta al partito, era diventata un’ausiliaria. E sui giornali dell’epoca c’è la traccia da seguire, di quello che è successo e di cui Clara non ha mai parlato a nessuno dopo essere arrivata a Roma, lasciandosi tutto alle spalle, la madre inferma, la sorella minore che l’ha accusata di essere una spia, il padre condannato per crimini di guerra. E lei, Clara, che cosa era successo a Clara?
    E’ un libro forte e crudele, “Tevere”. Un libro che fa soffrire. E’ un’esplorazione dell’animo femminile, un viaggio nel buio della depressione- non quella causata da uno scompenso chimico ma da un male profondo. Quella lasciata da cicatrici che il tempo non può guarire. Anzi, il tempo le manda in suppurazione, ne aggiunge altre dovute all’incomprensione, alle cure sbagliate che aggiungono violenza a violenza già subita. Perché di questo si tratta, in fin dei conti. Violenza, anche se solo psicologica, del padre su una figlia. Violenza carnale quando la donna è una prigioniera di guerra e a lei, solo a lei e non a qualunque uomo che possa aver combattuto schierato al suo fianco, viene inflitto un oltraggio privato solo perché donna. E’ abbastanza per far ritrarre una donna da tutti gli uomini, anche se amati.

  Per principio mi rifiuto di festeggiare le ricorrenze che ci sono state imposte- festa della mamma, della donna, del papà, degli innamorati, dei nonni e chi più ne ha più ne metta-, ma avrei parlato volentieri di questo libro, della storia di Clara, nel giorno delle donne. Come forma di protesta, per ricordare che sarebbe meglio denunciare ogni forma di violenza invece di spogliare gli alberi di mimosa.

   
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

la scrittrice Luciana Capretti           

Luciana Capretti, "Ghibli" ed. 2004

                                                                        il libro ritrovato

Luciana Capretti, “Ghibli”
Ed. Rizzoli, pagg. 205, Euro 14,50


Il 2 luglio 1970 due leggi decretavano l’espulsione dei 20.000 italiani residenti in Libia; tre mesi dopo il colonnello Gheddafi annunciava trionfalmente che 12.770 italiani erano partiti, in più erano stati confiscati 37.000 ettari di terra e 80 milioni di sterline libiche erano stati congelati sui conti bancari. Erano rimaste 1500 persone, tutti tecnici o esperti che “servivano” al regime. Su quei mesi drammatici è costruito il libro di Luciana Capretti, “Ghibli”, che mescola la storia della sua famiglia a invenzione narrativa. Sono sette capitoli che coprono un arco temporale di undici mesi, anche se non sono in ordine cronologico: il primo e l’ultimo portano la data “agosto 1970”, quando tutto è compiuto, e le prime parole, “Mahmud c’era riuscito”, stabiliscono già chi sono i vincitori e chi i vinti. Un nome arabo, Mahmud: è riuscito a farsi attribuire il negozio di oreficeria di Santo Attardi, a Tripoli. Lo stesso Santo Attardi che vediamo, nella pagina seguente, arrivare a Ostia, in costume da bagno e canottiera, così come era fuggito su un’imbarcazione. Indietro nel tempo, ad aprile, e poi maggio e giugno e luglio, con un balzo all’anno precedente, il 1969 quando Gheddafi aveva preso il potere, segnando la fine di re Idris e della convivenza pacifica. Mesi di timori e di speranze, in cui si prepara la fuga, in cui basta un pretesto per venire arrestati, in cui si sceglie e si scarta, quello che si può portare via e quello che si deve lasciare, quello che si può nascondere in sottofondi di armadi, cucire negli abiti, infilare in tubetti di medicine- i soliti espedienti di tutti i disperati costretti a far fagotto abbandonando i frutti del lavoro di una vita. Non c’è sentimentalismo nel racconto di Luciana Capretti, non si nasconde la realtà del fatto che gli italiani erano arrivati da conquistatori nel 1938, alla ricerca di un posto al sole.
Erano dei poveracci in realtà, reclutati nelle campagne, i più fedeli al fascio. Gli avevano detto che avrebbero avuto da lavorare, ma che la loro era una missione. Appena sbarcati erano stati ricevuti da Balbo, salutati dalle fanfare. Avevano avuto quello che gli era stato promesso, i poderi, i sussidi, i quintali di farina per far subito il pane. Che poi i poderi appartenessero ai libici e che questi fossero stati deportati nel deserto, che fossero stati uccisi, non importava a nessuno. Mors tua, vita mea. I ricordi di Santo Attardi si mescolano a quelli di altri personaggi, la povertà in Sicilia, la vita in una patria che non offriva speranze e  il capitolo nuovo che si era aperto a Tripoli. Era stata dura, ma ne era valsa la pena. Non viene espresso un giudizio in queste pagine, ma il quadro è ben chiaro: la vita era dolce per gli italiani a Tripoli, è vero che avevano dato e insegnato tanto ai libici, ma restavano pur sempre i conquistatori, quelli che, per la maggior parte, non avevano neppure imparato l’arabo. E poi la fuga- chi a nuoto fino ad una nave, chi  nascosto nella custodia di un violoncello, chi su un motoscafo, perdendo la bussola, restando a secco di benzina, scampando per miracolo. E il libro si chiude con un’ultima beffa, una sorpresa per quel Mahmud che pensava di avercela fatta, mentre soffia il ghibli, indorando l’aria, spazzando via il passato, seccando le lacrime, riempiendo la bocca di sabbia, soffocando le parole per il rimpianto.


la recensione è stata pubblicata sulla rivista "Stilos"

la scrittrice Luciana Capretti     

giovedì 27 marzo 2014

Mohammed Al Achaari, "L'arco e la farfalla" 2012

                                                      
                                                           Voci da mondi diversi. Africa
         il libro ritrovato



Mohammed Al Achaari, “L’arco e la farfalla”
Ed. Fazi, trad. Paola Viviani, pagg. 364, Euro 17,50
Titolo originale: al-Qaws wa ‘l-farashah
    
       Yassine, il figlio ventenne del giornalista Youssef Al Firsioui, morto come ‘martire’ in un attentato in Afghanistan, aveva sognato la costruzione di un enorme arco di acciaio tra le due sponde del Bou Regreg, in Marocco. Sarebbe stato vicino alla foce del fiume, una sorta di immenso arcobaleno, un simbolo di unione fra le città di Rabat e Salé, fra passato e futuro. L’arco “dipinto di azzurro, come uno zampillo d’acqua sull’oceano”, non era mai stato costruito. Il palazzo voluto dall’avvocato Ahmad Majd, invece, si ergeva provocatorio, con i suoi nove piani di altezza e la stravagante forma di un’enorme farfalla, a Marrakech. L’intento di Ahmad era di strappare Marrakech ad un passato che l’aveva immobilizzata come città carovaniera del deserto, colorata di rosso, dominata dalle palme svettanti. C’è qualcosa in comune, nell’intento delle due visioni. Eppure sono fondamentalmente diverse. L’arco è un’utopia, la farfalla è la realtà dei ristoranti, dei locali notturni, dei negozi, dei lussuosi appartamenti che contiene. Quando, verso la fine del libro, Youssef si reca all’inaugurazione dell’edificio-farfalla, in una delle stanze trova una statua di cui si è favoleggiato fin dall’inizio. Si tratta della statua di Bacco della cui misteriosa scomparsa dall’antica città romana di Walili era stato accusato il padre di Youssef. Scompare subito di nuovo, dopo che Youssef la riconosce. E questo vuol dire tanto del nuovo Marocco, dell’arroganza dei nuovi ricchi, della corruzione, dell’oblio e dello sprezzo del passato.

L’uomo elegante che aveva studiato a Parigi e aveva partecipato alla modernizzazione dell’università del paese, non tollerava più ciò che chiamava “il collasso del Marocco indipendente”. Non approvava quegli esempi spiccioli di civiltà presenti nella sua storica città, il logorio della scuola marocchina, lo stravolgimento dei valori, la folle competizione in nome del denaro, e nemmeno la distruzione della lingua araba. Né approvava i nouveaux riches, i commercianti al dettaglio, quelli che vendevano bevande alcoliche in segreto e ci guadagnavano, diventando i signori e i potenti della città.

       Youssef Al Firsioui è l’io narrante del romanzo “L’arco e la farfalla”, vincitore dell’Arabic Booker Prize 2011, ma non è l’unico protagonista. Perché, nello sconvolgimento che segue la tragica morte del figlio, Youssef perde l’olfatto e, con questo, il gusto della vita. Ripiegato su se stesso, è tutta la sua esistenza che gli scorre davanti agli occhi, che mette al vaglio e su cui si interroga. E’ come se Youssef si soffermasse davanti ad ognuna delle persone che sono state importanti per lui e cercasse di capire se stesso sviscerando le loro storie. Suo padre, che era emigrato in Germania per ritornare poi in Marocco a gestire un albergo- ora è cieco, eppure fa qualcosa di molto simbolico: guida i turisti tra le rovine e i mosaici di Walili. 

Sembra quasi un personaggio biblico, o un Omero che canta le glorie del passato. La madre di Youssef era tedesca- del suo suicidio Youssef aveva sempre addossato la colpa al padre. Con la moglie i rapporti si rovinano del tutto dopo la morte di Yassine. Youssef Al Firsioui ha due amici- Majd e Ibrahim.  E frequenta due donne- di una diventa l’amante, con l’altra ha un’amicizia profonda che si avvicina all’amore. Di tutti costoro conosceremo le storie che ci aprono degli squarci sulla realtà del Marocco- la situazione femminile, l’accanimento contro gli omosessuali, la censura, gli arresti e le prigioni per motivi politici, gli intrallazzi, gli abusi edilizi, i traffici di droga, la corruzione.  Anche la musica ha un connotato politico in un paese come il Marocco, diviso tra modernità e tradizione, tra estremismo religioso e democrazia. Eppure, come dimostrano i giovani figliastri di Ibrahim, si può fare parte di una band musicale di ‘servi di Satana’ e odiare gli omosessuali. E’ la prova di un dissidio profondo e lungi dalla soluzione- come il finale che chiude il cerchio in una tragica uguaglianza con l’inizio del romanzo.

      “L’arco e la farfalla”, come tutti i romanzi che, meglio di qualsiasi articolo di giornale, ci introducono alla storia di un altro paese, è una lettura affascinante anche se, a tratti, la narrazione sembra poco fluida (o è forse per via della traduzione dall’arabo, lingua di certo non facile e con una struttura diversa dall’italiano?).

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

lo scrittore Mohammed Al Achaari    

mercoledì 26 marzo 2014

Raja Alem, "Il collare della colomba"

                                            Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                                                             fresco di lettura


Raja Alem, “Il collare della colomba”
Ed. Marsilio, trad. Maria Avino, a cura di Isabella Camera d’Afflitto, pagg. 590, Euro 17,85
Titolo originale: Tawq al-hamàm


      Iniziare la lettura di un libro che proviene da un mondo e da una cultura diversi dai nostri è come arrivare in un paese lontano che non condivide né la nostra storia né le nostre tradizioni. Dobbiamo lavarci gli occhi e liberarci la mente prima di incominciare a leggere o di addentrarci per le strade di una città che non ha alcun punto di riferimento con le nostre. Correremmo altrimenti il rischio di una visione offuscata dal contrapporsi di immagini di ciò a cui siamo abituati, dal paragonare, con un metro inadeguato, delle pagine o delle opere d’arte con delle altre che già conosciamo. Pronti, dunque, per la splendida avventura che è il tuffarsi nel mondo arabo di Raja Alem?
    La Mecca, città santa che ha dato i natali a Maometto. Restringiamo il campo dell’obiettivo, un vicolo: “In questo libro una sola cosa è certa, il luogo del ritrovamento del cadavere: lo stretto vicolo chiamato Aburrùs, Vicolo delle Teste. Chi altri oserebbe scrivere di un vicolo chiamato Aburrùs se non io stesso, Aburrùs in persona, con le mie tante teste?”. Dovremo ricordarci spesso di questo inizio, ogni volta che pensiamo di essere sicuri di qualcosa- ci ha avvisato Aburrùs, questa personificazione di un vicolo con tante teste quanti sono i suoi abitanti, con tanti occhi che vedono anche quello che non è lecito vedere, l’unico che può sapere che cosa si nasconda nei giardini o dietro le porte da cui sbirciano le donne avvolte nelle abaya nere. Aburrùs ha il ruolo del narratore onnisciente, ma ha tante teste, non possiamo fidarci di lui.                    

Un cadavere di donna viene ritrovato nel vicolo, sembra sia precipitato dall’alto. Chi è la donna? Questo sarà il dilemma irrisolto fino alla fine del romanzo, perché, contemporaneamente, scompare un’altra ragazza dal Vicolo delle Teste. Azza è morta e Aisha è fuggita, o il contrario? Persino i nomi delle due ragazze hanno qualcosa di simile. Erano amiche, Azza che faceva splendidi disegni e Aisha che viveva di libri. Sono una il doppio dell’altra, una più giovane, l’altra con una cicatrice riportata in un incidente in cui tutta la sua famiglia è morta? O sono la stessa persona, le due facce della stessa ragazza, quella che nella seconda parte ritroviamo a Madrid al seguito di uno sceicco che le ha dato un nuovo nome, Nura?
C’è anche un poliziotto che indaga, in questo romanzo che non è affatto un thriller, né vuole esserlo. Si chiama Nasser, è un tipo solitario che finirà per essere ossessionato da Aisha, leggerà e rileggerà le e-mail che Aisha ha scritto ad un tedesco conosciuto nell’ospedale di Bonn in cui è stata curata (che svergognata), metterà sotto il cuscino una manica dell’abito di nozze di Aisha. Ossessione: è la parola che meglio si addice al tipo di rapporto uomo-donna del mondo musulmano che ci descrive Raja Alem. E non potrebbe essere altrimenti, visto il mistero in cui è avvolto l’universo femminile- un mistero rappresentato dall’abaya nera sotto cui si celano i corpi delle donne. Si fantastica su una ciocca di capelli, sullo scalpiccio dei piedi, su una scia di profumo. 

Anche Yusuf, giornalista scrittore, è ossessionato, non da Aisha ma da Azza, sua compagna di infanzia. Parla di lei nel suo diario- un’altra delle diverse narrative del romanzo, troppo complesso per una sola narrazione lineare. E, diametralmente opposto al rapporto cupo che vivono queste donne e che molto spesso culmina in una temibile notte di nozze, c’è “lo splendore del vivere”, il trionfo dell’amore dei sensi che è un accumulo di vita come è descritto nelle pagine di “Donne innamorate” di D.H.Lawrence che Aisha legge di nascosto e di cui riporta alcuni brani nelle sue mail.

 Da piccoli eravamo convinti che quei colombi vivessero soltanto nella casa di Dio e non si trovassero da nessun’altra parte sulla terra.
Le nostre nonne ci dicevano: “Portateli altrove e moriranno.” E poi ci mettevano in guardia: “Non fate loro del male.”
Ma più tardi, nei film di Hollywood, vidi che quei colombi dal collare si trovavano dappertutto. Quegli uccelli erano emigrati in tutti i luoghi della terra, abbandonando la casa di Dio?

   C’è molto d’altro che Raja Alem vuole dirci in questo libro e la trama, di misteri, nascondigli, travestimenti, inseguimenti, gliene offre la possibilità. Scompare la chiave della sacra Kaaba e la ricerca ci porterà lontano, tra Storia e leggende, storie di famiglie e storia di un popolo, ci aprirà la porta di una libreria ricolma della cultura araba, ci porterà nel palazzo del famoso fotografo che, con le foto da lui scattate in quasi cento anni, testimonia il cambiamento della Mecca, da città santa dimora dello spirito a città di casermoni, di merci dozzinali e di corruzione, ci condurrà a Gedda dove i lavoratori clandestini si fanno arrestare per essere rimpatriati gratuitamente, ci ricorderà l’assalto dei terroristi alla grande Moschea nel 1979 facendoci conoscere il boia della Mecca.  
E’ un mondo a noi sconosciuto davanti al quale proviamo quello che prova Nura in Spagna, quando si rende conto di non sapere chi è Picasso mentre noi non abbiamo mai sentito parlare di Ibn Hazm che ha scritto “Il collare della colomba”, un libro sull’amore come chiave che apre tutto, che mette in comunicazione le tre grandi religioni. E Raja Alem, straordinaria affabulatrice, è il Virgilio che ci guida in questo mondo, stuzzicandoci, facendocelo assaporare e desiderare di leggere altro ancora.
     Con questo romanzo Raja Alem è stata la prima donna a vincere, nel 2011, l’Arabic Booker Prize. E, per la prima volta, il premio è stato assegnato pure, a pari merito, allo scrittore marocchino Mohammed Achaari, autore de “L’arco e la farfalla” (ed. Fazi).

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

la scrittrice Raja Alem e, a destra, con Mohammed Al Achaari 
                                                                                                                                                                 
  
    
  
    

martedì 25 marzo 2014

Antonio Tabucchi

                                                                                     ricorrenze

                                                                                     un autore

  Due anni fa, il 25 marzo 2012, moriva Antonio Tabucchi, nato a Pisa nel 1943. Autore di romanzi, racconti, saggi, testi teatrali, ha curato l’edizione italiana delle opere di Fernando Pessoa. Il suo libro più famoso, “Sostiene Pereira” ha vinto il Premio Campiello del 1994 e i suoi romanzi sono tradotti in quaranta lingue.

Antonio Tabucchi, "Sostiene Pereira" ed.1994

                                                    
                                                                        ricorrenze               
                                                                        audiolibro



Antonio Tabucchi, “Sostiene Pereira”
Ed. emons: Feltrinelli, letto da Sergio Rubini, CD MP3, versione integrale, durata 4 ore 23 minuti, Euro 16,90

   Se fossi Pereira, meglio, se fossi la voce fuori campo del romanzo, quella che pare essere del suo difensore in un tribunale, direi che sostiene Pereira che se lo sentiva (che io me lo sentivo) che doveva rileggere quel romanzo, pur non sapendo perché. Perché quello che ‘sentiva’ era una ricorrenza importante, che aveva a che fare con la morte: Antonio Tabucchi è morto il 25 marzo 2012, due anni fa. E ho ascoltato due volte di seguito l’audiolibro “Sostiene Pereira”: la splendida lettura di Sergio Rubini per un libro splendido.
   Il libro è talmente famoso, grazie anche alla trasposizione cinematografica del 1995 con la regia di Roberto Faenza e Marcello Mastroianni nei panni del dottor Pereira, che una recensione è superflua. E tuttavia voglio parlarne ugualmente, perché mi ha colpito nel profondo, perché è uno di quei libri che diventano più ‘grandi’ se riletti attraverso la lente del tempo, perché il messaggio che contiene è più che mai valido, perché il mite, ritroso, grigio dottor Pereira potrebbe essere uno di noi. Così buono il dottor Pereira che, quando va da padre Antonio per confessarsi, questi gli dice di tornare quando avrà fatto qualche peccato, che non gli faccia perdere tempo. Eppure il dottor Pereira ha una colpa, quella di vivere nel suo mondo dell’intelletto, traducendo autori francesi, senza quasi sapere che cosa stia succedendo in Portogallo.
Antonio Salazar
E’ il 1938 e il dittatore Antonio de Oliveira Salazar è al potere dal 1932. Pereira è un giornalista, è incaricato della pagina culturale del giornale Lisboa ed è per caso, dopo aver letto un suo saggio sulla morte, che assume come apprendista il giovane Francesco Monteiro Rossi e ne conosce pure la fidanzata- troppo politicizzata secondo il dottor Pereira. A Monteiro Rossi Pereira affida l’incarico di scrivere i ‘coccodrilli’, i necrologi anticipati di personalità che potrebbero morire da un giorno all’altro. Ecco, la morte è entrata con prepotenza subdola nel mondo di Pereira. La morte in filosofia, la morte della moglie al cui ritratto Pereira parla, la morte possibile, la morte quotidiana in un paese morto alla vita- quando un carrettiere che riforniva i mercati verrà ucciso dalla polizia nell’Alentejo, i giornali non ne parlano, non possono parlarne. Pereira, a quel punto, risvegliato ad una nuova consapevolezza da Monteiro Rossi, se ne stupisce, se ne scandalizza. Sembra che Pereira scopra un mondo nuovo, di oppressione e di violenza e di voglia di libertà, guidato dal giovane Monteiro Rossi che diventa idealmente il figlio che non ha mai avuto, che dice che a lui non interessa la morte, è la vita che gli interessa. Pereira scopre che in Spagna si sta combattendo, e perché mai il Portogallo, una repubblica, dovrebbe schierarsi accanto a Franco, contro i repubblicani spagnoli?
C’è un’altra persona che contribuisce al cambiamento di Pereira, il dottor Cardoso che si prende cura non solo del suo corpo (per forza è in sovrappeso, le dieci limonate al giorno che Pereira beve sono per metà zucchero) ma anche della sua anima, sollecitando la sua presa di coscienza politica, spingendolo a prendere posizione, a pubblicare articoli che suscitano la furia del suo direttore (quanto è cambiato, Pereira, da quando si scandalizzava per gli scritti di Monteiro contro quel ‘fascistone’ di D’Annunzio o quel guerrafondaio di Marinetti), a ‘frequentare il futuro’ staccandosi dal passato. Farà di più Pereira, nasconderà Monteiro Rossi, e altro ancora, fino a mettere la sua firma sul giornale, un manifesto J’accuse.

   C’è qualcosa di intensamente doloroso nel personaggio di Pereira, nel romanzo di Tabucchi. Qualcosa che fa sì che questo piccolo antieroe eroico divenga esemplare. Indimenticabile.
Un libro che è un capolavoro, da rileggere, o da leggere almeno una volta nella vita.

la copertina dell'edizione cartacea   

"Sostiene Pereira", il film con Marcello Mastroianni dal libro di Tabucchi 1995


                                                                                       ricorrenze
                                                                                 dal libro al film
Il personaggio del dottor Pereira è stata l'ultima interpretazione cinematografica di Marcello Mastroianni ed è quasi doloroso pensare quanto gli si addicesse la parte, quanto abbia pienamente concluso una gloriosa carriera di grande attore. Nel 1995 gli è stato assegnato il David di Donatello come miglior attore, sarebbe morto il 19 dicembre 1996, a Parigi.