martedì 16 maggio 2017

Ian Manook, “Tempi selvaggi. Yeruldelgger” ed. 2017

                                                           Voci da mondi diversi. Francia
   cento sfumature di giallo
   FRESCO DI LETTURA

Ian Manook, “Tempi selvaggi. Yeruldelgger”
Ed. Fazi, trad. M. Ferrara, pagg. 473, Euro 17,00

     E’ tornato Yeruldelgger, l’ispettore mongolo protagonista della trilogia di Ian Manook (nom de plume dello scrittore francese Patrick Manoukian). E’ tornato in un noir più nero che mai, più selvaggio che mai, violento e spietato ma- come già ho osservato dopo aver letto il precedente “Morte nella steppa”- ci possiamo aspettare qualcosa di diverso dai discendenti del famigerato Gengis Khan?
    Ulaan Bator. Una giovane prostituta viene ritrovata morta in una stanza d’albergo. Yeruldelgger la conosceva, la conoscevamo anche noi perché era un personaggio del primo volume della serie. E Yeruldelgger è sospettato dell’omicidio: le telecamere dell’albergo lo mostrano mentre entra nella stanza della ragazza che si faceva chiamare Colette. E’ vero che Yeruldelgger aveva un appuntamento con lei, è vero che era andato nella sua stanza, ma non l’aveva trovata. E’ chiaro che qualcuno vuole incastrarlo. Intanto Gantulga (ricordate il ragazzino che viveva nelle fogne e che ha salvato la figlia di Yeruldelgger?) è scomparso insieme ad un altro bambino che Colette aveva ‘adottato’.
Zaizhan Hill, Ulaan Bator
Ancora due fatti come premessa per la trama di azione di questo romanzo che finirà per travolgere il lettore, tra attentati, sparatorie, colpi di scena, inseguimenti, rischi che portano i personaggi alla morte o sul filo della morte e salvataggi estremi. Nell’immensità della steppa il commissario Oyun, sempre bella ma con il corpo straziato dalla terribile prova nell’impresa precedente, deve indagare su uno strano cumulo di cadaveri congelati- un cavallo, un uomo e un grosso yak: sembrerebbe che lo yak fosse precipitato dal cielo schiacciando gli altri due con la sua mole. E infine il corpo di un uomo morto è incastrato in una parete rocciosa in un luogo non lontano da un insolito museo il cui curatore è un armeno.
    Non c’è sosta nel turbinare delle vicende. Nessuno di noi può illudersi che le scene d’amore tra Oyun e il bel soldato siano un idilliaco intervallo rosa. E infatti…La storia, o piuttosto le storie con il filo che le collega, si srotolano tra Ulaan Bator (abbiamo il privilegio di guardarla insieme ad Oyun dall’alto del Blue Sky Hotel che sembra una vela gigantesca), Krasnokamens (la città dell’uranio dove l’aspettativa media di vita è 42 anni e dove Putin ha fatto imprigionare l’oligarca che aveva evaso le tasse), Le Havre e Honfleur in Francia dove giganteggia un ispettore armeno che è la degna controparte di Yeruldelgger. Dappertutto spunta fuori il temibile suocero di Yeruldelgger, prevediamo che ci sarà un ‘duello’ all’ultimo sangue.

     “Tempi selvaggi” è un page-turner di classe. Fitto di personaggi, di storie, di flash su un paese selvaggio come i tempi del romanzo. In un paese così, perfino il Male acquista una dimensione grande, tanto da corrodere l’anima di chi vi viene in contatto. E la linea di confine tra Bene e Male si assottiglia, diventa difficile distinguerli. Yeruldelgger è il primo a non riconoscersi più, a fermarsi un attimo a pensare che è diventato come ‘loro’, le persone a cui dà la caccia. Crudele, spietato, insensibile. Questo è il crimine peggiore di questi tempi selvaggi in questa terra selvaggia. Perché qualcosa va detto sul grande personaggio che è la Mongolia che scopriamo nei libri di Ian Manook. Una perfetta ambientazione per dei thriller dove le armi (che ci sono, eccome) sono un sovrappiù: per uccidere basta abbandonare la vittima designata in un qualsiasi punto della steppa e ci penserà il freddo (anche 30 gradi sotto zero) a farla morire.
La parte della trama ambientata a Honfleur e Le Havre serve anche per tracciare un paragone della distanza fra l’Europa e la Mongolia: le signorili case di Honfleur sono il segno di come i francesi abbiano attraversato i secoli arricchendosi ‘di ingegno e di abilità manuale, di tecniche e di segreti di fabbricazione, di audacie e di invenzioni’. Il protagonista pensa con sconforto alla sua Mongolia dove quello che i turisti vanno a cercare è proprio quello che lui sente come ‘la rovina di una nazione che non aveva costruito nulla’- secoli e secoli nella stessa yurta, ‘credendo nella stessa eternità, mentre l’Europa e il mondo cambiavano casa e ideale a ogni generazione’.
     C’è una sola cosa che non mi ha convinto, del libro di Ian Manook: non mi ha convinto ad assaggiare (se mai mi capitasse) il piatto locale di testa di pecora.

lo scrittore sarà presente al Salone del Libro di Torino
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net




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