giovedì 5 ottobre 2017

Boris Pahor, “Il rogo nel porto” ed. 2008

                                                      Casa Nostra. Qui Italia
          seconda guerra mondiale
          il libro ritrovato

Boris Pahor, “Il rogo nel porto”
Ed. Zandonai, trad. Anna Raffetto, pagg. 224, Euro 18,00
Titolo originale: Kres v pristanu

 “Vieni qui” le disse con gli occhi lampeggianti.
   Julka si mosse e già le dita impazienti del maestro l’avevano afferrata per l’orecchio.
  “Non voglio più sentire quella brutta lingua” disse camminando fra i banchi e tirandosela dietro. “Non voglio.” La sua voce ansimava. “Avete capito che non voglio?”

   “Ognuno sa purtroppo soltanto le cose che lo riguardano”, riflette lo scrittore quando, insieme a due compagni sopravvissuti come lui ai campi di concentramento, ascolta alla radio la notizia che l’esercito jugoslavo ha occupato Trieste. Sono a Lille, in Francia, indossano ancora le casacche a righe dei detenuti, sono entrati nel negozio di un vecchio barbiere che gli ha detto: “Chi porta simili uniformi non ha bisogno di denaro”. E’ un’eccezione, il vecchio barbiere del racconto “Nuove fibre” che fa parte della raccolta “Il rogo nel porto” di Boris Pahor, appena pubblicata dalla casa editrice Zandonai.
Perché, a guerra terminata, questa è l’esperienza sconvolgente di coloro che tornano dall’inferno dei campi: la gente non vuole sapere, si gira dall’altra parte facendo finta di non vedere, scansando un reduce se lo incontra per strada, come fosse un appestato. Peggio ancora: con quell’aspetto così malconcio, con il feltro in testa che nasconde il cranio rasato ma gli conferisce l’aria di un malintenzionato, lo scrittore-narratore, ritornato a Trieste, viene addirittura fermato dalla polizia e accusato di tentativo di scasso. E l’interrogatorio (nel racconto “Una strana accoglienza”) suona come un dialogo tra sordi, o uno scambio di battute in un tragicomico dramma dell’assurdo: “E’ disoccupato?”, “Prima ero internato”, “E’ disoccupato. E basta”.
    Tuttavia il significato della frase che abbiamo citato all’inizio- che ognuno conosce solo ciò che lo riguarda- va oltre la capacità di immedesimarsi, di dare un’occhiata nel baratro della necropoli, nel mondo degli scheletri ambulanti con una divisa a strisce e zoccoli di legno ai piedi. Arriva ad inglobare tutto e a riguardare tutti noi, lettori del presente che continuiamo a sapere soltanto quello che ci tocca da vicino e a procedere con frammenti di cognizioni e spesso con vecchi pregiudizi. Perché quanti di noi sono informati di quello che accadde il 13 luglio 1920 a Trieste, quando i fascisti diedero fuoco alla casa della Cultura slovena, il bianco edificio in centro alla città progettato dall’architetto Max Fabiani nel 1904? Eppure è questo il ricordo traumatizzante che ritorna di frequente, a fare da collante, nei racconti de “Il rogo nel porto”. A volte è solo un accenno, come uno spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’.
Nella storia che dà il titolo alla raccolta è l’avvenimento centrale- il cielo che si tinge di rosso, il puzzo di bruciato, le camicie nere che danzano come selvaggi intorno al Narodni Dom, uomini e donne che si gettano dalle finestre per sfuggire alle fiamme- accostato a tre altre vicende. Quella di Mizzi (più serva che nipote del vecchio zio che la ospita) che, rispondendo alla domanda dello zio, dice di essersi dichiarata slovena, e lui le lancia un insulto, S’ciava: veniamo così a sapere del censimento che operò un’altra forma di violenza sui triestini (“Sei cittadina straniera. Ti manderanno via”). E poi altri due episodi che hanno spaventato Branko e Evka, i bambini protagonisti di quasi tutti i racconti che sono memorie d’infanzia,- quando i fascisti  interruppero una recita per San Nicolò e quando dei ragazzini italiani disturbarono un’ora di lezione nella scuola slovena. “Che ne sarà di questi bambini?”, si chiede Mizzi. “Vivono sotto una cappa di paura”.
 Non è solo paura, non sono solo gli incubi che hanno il colore del rosso e del nero che assillano i bambini. E’ anche quell’altra costrizione che li rende muti togliendogli la loro lingua, obbligandoli ad esprimersi in italiano (e così Branko scrive in un tema che la nave ‘si annegò’), punendoli se parlano nella loro (sono come le ali di una farfalla inchiodata con uno spillo le cocche del nastro che lega le trecce di Julka- attenzione, la si deve chiamare Giulia- e con cui il maestro la sospende all’attaccapanni).
   Sono queste le cose che non sapevamo perché non ci riguardano da vicino- e ce ne sono altre ancora in questa raccolta di storie che leggiamo come un tutto unico perché vi riscontriamo alcuni fili conduttori: i bambini del primo gruppo di ricordi; le leggi repressive fasciste; lo smarrimento per la perdita di identità culturale; l’esperienza della ‘fortezza della perdizione’ di cui abbiamo letto più a lungo in “Necropoli” e quella sconcertante dell’indifferenza altrui al ritorno. Ovunque, in ogni pagina, le luci e i colori di Trieste.
Gli scorci sul mare e il Carso alle spalle. La bora che soffia, compagna ed amica anche quando gela le ossa. La terra che non si vuole abbandonare perché la si ama, qualunque sia la lingua in cui questo amore è espresso. E si finisce, nel racconto “Una sosta sul Ponte Vecchio”, quasi nello stesso modo con cui si è iniziato: quanta acqua è passata sotto i ponti, eppure sono ancora vivi la discriminazione, il disprezzo, l’ignoranza. Perché mai gli studenti sloveni di Trieste studiano Dante e la letteratura italiana e gli studenti italiani nulla sanno degli scrittori sloveni? Forse perché, se così fosse, “la vita da noi diventerebbe un paradiso”?

    La penna di Boris Pahor è straordinariamente felice in questi racconti (e altrettanto felice quella della traduttrice Anna Raffetto), lo stile ci pare più levigato e insieme più naturale che nel dolente “Necropoli”, permeato di una poesia che riesce ancora ad alleviare i ricordi bui. E, in aggiunta al piacere, la lettura si risolve in uno spunto di riflessione: “la storia ci ha messi tutti alla prova…il compito nostro, ora, è di fare in modo che ci si possa riunire in un saggio convivio.”

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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