sabato 14 ottobre 2017

Boris Pahor, “Qui è proibito parlare” ed. 2010

                                                     Casa Nostra. Qui Italia
                                                                 il libro ritrovato
         la Storia nel romanzo

Boris Pahor, “Qui è proibito parlare”
Ed. Fazi, trad. Martina Clerici, pagg. 388, Euro 19,00

    Il nome di Boris Pahor non diceva proprio nulla  ai lettori italiani fino a quando, lo scorso anno, la casa editrice Fazi pubblicò “Necropoli” (sconvolgente rievocazione dell’esperienza dello scrittore nei campi di concentramento nazisti) e, pochi mesi dopo, presso Zandonai uscì la raccolta di racconti “Il rogo nel porto”. Immediatamente Boris Pahor divenne quasi un simbolo, portavoce della minoranza slovena di Trieste, testimone dei soprusi fascisti nella sua città- primo fra tutti, l’imposizione della lingua italiana alla comunità slovena.
    Il nuovo romanzo pubblicato da Fazi, “Qui è proibito parlare” (un ‘vecchio’ romanzo peraltro, anche se dobbiamo arrivare all’ultima pagina per trovare la data, 1963, in cui fu scritto), ci rimanda alla tematica de “Il rogo nel porto” più che alla città dei morti viventi di “Necropoli”. Perché ancora bruciante e aperta è la ferita della forzata italianizzazione degli abitanti slavi di Trieste: dopotutto non venivano forse chiamati ‘S’ciavi’ in dialetto triestino? S’ciavi, una parola così vicina nel suono a slavi, ma con il significato dispregiativo di ‘schiavi’, per non dire ‘scarafaggi’ che dovevano essere schiacciati. Tra il 1924 e il 1927 una serie di leggi imponeva la chiusura delle biblioteche e delle scuole slave,  trasferiva forzatamente insegnanti slavi in altre località italiane, obbligava ad italianizzare i cognomi di famiglia. Come già ne “Il rogo nel porto”, in “Qui è proibito parlare” ritornano angoscianti due ricordi: l’incendio del Narodni Dom, la Casa della Cultura slovena, avvenuto nel 1920 per mano delle camicie nere, e le punizioni inflitte a scuola a chiunque fosse stato sorpreso a parlare in slavo. Sono due ricordi che hanno a che fare con chi si è, con la propria identità che va al di là dei concetti territoriali di nazione- perché la patria è la propria lingua.

     C’è una storia d’amore, al centro della trama di “Qui è proibito parlare”: Emi- una tragica vicenda famigliare alle spalle che viene fuori a poco a poco nei suoi racconti- incontra il giovane Danilo sul molo di Trieste; diffidente dapprima, poi attratta da lui e dalle sue parole, infine innamorata. E l’aver conosciuto Danilo introduce Emi nell’ambiente della resistenza slovena al fascismo che opera soprattutto su un piano culturale, stampando e distribuendo libri in sloveno ai bambini, quelli che, per la giovane età, sono più a rischio di dimenticare la lingua.


     E’ come se ci fossero due romanzi in “Qui è proibito parlare”. O meglio un saggio storico e un romanzo, e certamente il più interessante dei due è il saggio storico che rende note le difficoltà degli slavi a Trieste e la palese ingiustizia, nonché la violenza morale, del genocidio culturale e linguistico perpetrato a loro danno. Appare invece forzata e rigida la storia d’amore tra Emi e Danilo, con dialoghi artificiosi e poco credibili, pur nell’urgenza politica del momento. E’ come se i due personaggi principali apparissero sulla scena per fare da portavoce allo scrittore stesso, vittima della situazione triestina insieme ad altri scrittori perseguitati dal regime i cui nomi sono purtroppo ignoti in Italia. E a noi interessa venirne a conoscenza, ma il contesto risulta freddo ed è difficile appassionarci alle vicende dei personaggi. Inoltre, paradossalmente, i loro discorsi politici sono meglio dello scambio di parole in cui affiorano- o dovrebbero affiorare- i sentimenti: qui la ritrosia non si giustifica neppure considerando gli anni in cui il romanzo fu scritto, pare piuttosto che l’interesse principale dello scrittore sia altrove. Non certo nel parlare d’amore.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


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