lunedì 27 novembre 2017

Isaac B. Singer, “Keyla la Rossa” ed. 2017

                                                           Diaspora ebraica   
          premio Nobel
          FRESCO DI LETTURA

Isaac B. Singer, “Keyla la Rossa”
Ed. Adelphi, Trad. M. Morpurgo, pagg. 280, Euro 17,00

  La pubblicazione di “Keyla la rossa” di Isaac B. Singer (premio Nobel 1978) da parte della casa editrice Adelphi nell’ottima traduzione di Marina Morpurgo è una bellissima sorpresa, è come aver trovato un tesoro. Il romanzo, pubblicato a puntate in yiddish tra il 1976 e il 1977, ha avuto, finora, soltanto una traduzione in ebraico nel 2011, senza contare quella in inglese fatta dal nipote nel 1978 che era, però, solo una prima stesura, da rivedere e correggere.
    Come ci sembra lontano, oggi, quando ci siamo inoltrati da quasi vent’anni nel secondo millennio, il mondo di Singer, quella yiddishland che la seconda guerra mondiale ha spazzato via! Eppure, per una strana magia, che è poi la bravura di Singer, non facciamo fatica ad immaginarlo, a calarci dentro di esso, ad abitare anche noi in via Krochmalna a Varsavia, la stessa strada in cui aveva abitato lo scrittore prima di emigrare negli Stati uniti negli anni ‘30.
Via Krochmalna non è una strada da ricchi. Ladri, beoni, perdigiorno e prostitute abitano in via Krochmalna. Ebrei osservanti con le peot a lato del viso e palandrane nere, donne che nascondono i capelli con la parrucca e sgualdrine imbellettate e abiti corti. Come Keyla dai riccioli di fuoco, ventinove anni, bellissima, che ha finito per sposare Yarme. Lei una prostituta, lui un avanzo di galera (che però sa leggere). Lei con un passato di innumerevoli uomini, lui che ne è geloso. Si amano, di un amore un po’ tempestoso, ma pur sempre amore. Finché ricompare sulla scena un personaggio mefistofelico che accampa dei diritti non solo sul corpo di Keyla ma anche su quello di Yarme che ha conosciuto in prigione. E vuole convincere entrambi a partire con lui per l’America, o l’Argentina, o chissà, il Brasile. Propone un ménage a tre, intende portare oltremare delle ragazze giovani, Keyla non avrà più bisogno di prostituirsi, lo faranno le altre per lei, lei sarà la madama. Yarme cede alle pressioni di Max, Keyla si ritrae inorridita, cerca aiuto da un rabbino, ne conosce il figlio Bunem. Che cosa può provare il giovanissimo Bunem, ribelle, critico di quella stretta osservanza delle norme religiose, aspirante pittore, davanti ad una donna di fuoco come Keyla?

    Sono gli anni che precedono la rivoluzione del 1917, per sfuggire all’Ochrana (la polizia russa) che ricerca Bunem per la sua amicizia con una giovane anarchica, non c’è altra via che emigrare. Dopo averlo tanto desiderato, corrisponderà il sogno americano a quanto Bunem e Keyla si aspettano?
     “Keyla la rossa” è un libro importante nella carriera narrativa di Singer. Perché è un libro diverso, un libro che si distacca da un mondo e apre lo sguardo su un altro. Non è solo il personaggio di Keyla ad essere affascinante nel modello che propone- sensuale e generosa con il suo corpo, passionale senza restrizioni, consapevole di essere peccatrice e umile proprio per quello e ugualmente in cerca di Dio. Lo è anche Bunem, seppure in modo differente. Bunem è tormentato, forse come lo era Isaac Singer. Stretto fra tradizione e modernità. E’ inconcepibile che proprio lui, figlio di un rabbino, contesti la religione del suo popolo. Bunem si rifiuta di credere in un Dio che esaltano come buono, un Dio che si preoccupa per gli uomini: come è possibile che, allora, questo Dio permetta i pogrom o la miseria e la fame? Per un Isaac Singer che avrebbe vissuto, da lontano, la tragedia dell’Olocausto, la domanda è- come ha potuto Dio permettere le camere a gas e i campi di sterminio?

    Anche la tematica di fondo del romanzo, la grande idea per arricchirsi di Max e Yarme, una tratta di bianche ebree per aprire dei bordelli in un paese dell’America Latina, è ‘rivoluzionaria’, nel senso che capovolge del tutto l’immagine dell’ebreo pio che teme di peccare anche solo guardando una donna.
E’ per questo che il libro, con il suo finale aperto, è molto umano, perché gli ebrei di “Keyla la Rossa” sono come tutti gli uomini, senza alcuna certezza, sono uomini che peccano e si domandano se saranno puniti per quello, amano e si lasciano andare alla passione, si allontanano dalla loro yiddishland per poi rimpiangerla sempre in quell’altro mondo dell’esilio in cui non si riconoscono.



    

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