sabato 24 febbraio 2018

Hitonari Tsuji, “Il Buddha bianco” ed. 2010

                                                                 Voci da mondi diversi. Asia
                                                                 la Storia nel romanzo
    
Hitonari Tsuji, “Il Buddha bianco”
Ed. Tropea, trad. Francesco Bruno, pagg. 252, Euro 17,50

Titolo originale: Hakubutsu

    Minoru si trovava, in compagnia di quattro o cinque soldati, in una trincea poco lontana dalla caserma. Fissava la distesa grigia e bianca che aveva davanti. Per il giovane, che fino ad allora non aveva mai lasciato il Kyushu, quel villaggio rappresentava tanto la sua prima esperienza del mondo esterno quanto la frontiera fra la vita e la morte.
   “Non ho nessuna voglia di morire qui” era il leitmotiv di quei giovani soldati. Era troppo penoso sacrificare la vita, foss’anche per la patria, in un paesaggio così desolato e così lontano sotto ogni punto di vista dal loro Giappone natale.


   Nella minuscola isola di Ono, nel Giappone meridionale, quattro bambini giocano: hanno infilato un petardo nell’ano di un rospo, lo faranno esplodere lanciandolo in aria. L’idea della bomba-rospo è di Minoru Eguchi, che continuerà per tutta la vita a inventare e brevettare le sue idee geniali- una mitraglietta, mini-trattori adatti per i piccoli appezzamenti di terreno giapponesi, un essiccatore di alghe, una rete munita di un trinciante da agganciare alle barche per facilitare la pesca delle alghe. E infine il Budda bianco, la più mistica delle sue creazioni, la statua gigantesca che uno scultore avrebbe fatto per lui con la polvere delle ossa di tutti i morti dell’isola.

   Per il lettore che riesce a distaccarsi dagli schemi della narrativa occidentale “Il Buddha bianco” dello scrittore giapponese Hitonari Tsuji (famoso non solo come scrittore, ma anche come cantante rock) si rivela un libro straordinario, uno di quei libri che riassumono l’esistenza nelle loro pagine: la vita con il frenetico avvicendarsi di gioie e dolori e la morte, fatta di quiete, di silenzio e di ritorno al nulla. La trama del romanzo è simile a cerchi concentrici che si allargano sull’acqua quando viene scagliato un sasso: il cerchio dal diametro minore è la storia dei quattro ragazzini che diventano adulti, il cerchio seguente è quella della famiglia Eguchi, segue la storia dell’isola e, infine, il cerchio più vasto che tutti li racchiude è uno squarcio sulla storia del Giappone nella prima metà del secolo XX.
    Dei quattro ragazzi solo uno si allontanerà dall’isola, farà il militare e sarà il primo a morire. Gli altri tre continueranno il lavoro dei padri ed è strano come questo lavoro abbia a che fare, in qualche maniera, anche solo simbolicamente, con la morte, in un intreccio inestricabile dalla vita. Perché il padre di Kiyomi è il custode del crematorio e quello di Tetsuzo fa il barcaiolo- avanti e indietro da una sponda all’altra per traghettare chi deve passare al di là del fiume. E’ inevitabile pensare al traghettatore di anime nell’aldilà e, inoltre, quanti corpi ha inghiottito quel fiume- morti suicidi, morti per un incidente. Come l’amante di Tetsuzo che si è tolta la vita dopo la morte di questi. Come il fratellino di Minoru, caduto in acqua mentre giocava con lui, che ritornerà sempre nei suoi pensieri per sempre bambino. D’altra parte non c’è una linea definita di demarcazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ed è giusto e bello che sia così. I morti vivono finché ci si ricorda di loro e hanno la possibilità di un’altra vita reincarnandosi in qualcun altro: in questo modo si spiegano quelle strane sensazioni di déja-vu che prova ogni tanto Minoru, così come le proverà sua figlia Rinko.

La famiglia di Minoru Eguchi discende da un samurai, da lì l’arte di forgiare le spade che in seguito sarebbero state sostituite dalle baionette e poi in armi e ancora dopo in attrezzi agricoli o per la pesca. Minoru era poco più che un ragazzino quando era stato mandato a combattere in Siberia, nel 1919. Un’esperienza che lo avrebbe segnato per sempre. Nel gelo paralizzante, nella distesa bianca senza fine, in attesa di un nemico invisibile, quel posto era per lui “la frontiera tra la vita e la morte”. La morte Minoru l’aveva già conosciuta: era morto il fratellino, era morta la ragazza che era stata il suo primo amore. Ma la morte che Minoru avrebbe dato di sua mano ad un ragazzo dagli occhi chiari- quella era diversa. Minoru lo aveva ferito e poi lo aveva ucciso. Deliberatamente. Minoru si sentiva, Minoru  era un assassino.

     Da bambino Minoru aveva paura di essere stato contagiato, di aver preso la malattia della morte. Aveva chiesto se tutti dovessero morire, un giorno. Ma- e questa è la fantastica visione che Minoru anziano ha, infine- se si creasse un luogo di culto in cui venisse esposta la statua di un Budda fatto con le ossa di tutti i morti, questa sarebbe la maniera perché nessun morto fosse dimenticato, perché a tutti venisse reso omaggio, perché i defunti, trovandosi tutti insieme, non si sentissero mai più soli. Un Budda dalla grande faccia serena, dall’espressione di una dolcezza infinita. Un Budda che tutto sa, tutto comprende. Un Budda bianco di polvere di ossa, bianco come il colore del lutto.
     Leggiamo nella postfazione che il nonno dello scrittore è servito da modello per l’eroe del romanzo e che Hitonari Tsuji ha scritto il libro per cercare una risposta al perché suo nonno avesse costruito il Budda bianco dell’isola di Ono. Ci piace la risposta che ha trovato in un romanzo spoglio, poetico, esistenziale.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




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