martedì 13 febbraio 2018

Pietro Spirito, “Un corpo sul fondo” ed. 2007

                                                          Casa Nostra. Qui Italia
           seconda guerra mondiale
           la Storia nel romanzo

 Pietro Spirito, “Un corpo sul fondo”
Ed. Guanda, pagg. 236, Euro 14,00

 Il 30 gennaio 1942 il sommergibile Medusa venne affondato al largo della costa istriana. Dopo tre giorni di tentativi si abbandonò ogni sforzo di salvare i 14 uomini imprigionati nella camera di lancio di poppa. Sessanta anni dopo un giornalista, incuriosito e spinto da un vecchio reduce che si sente colpevole, svolge delle ricerche per capire quale sia stata la sorte finale del Medusa e se veramente tutto il possibile era stato fatto per far uscire gli uomini dagli abissi.


INTERVISTA A PIETRO SPIRITO, autore di “Un corpo sul fondo”


  Terret hostem Medusa, era il motto del sommergibile che si chiamava, per l’appunto, Medusa, come la fanciulla amata da Poseidone che trasformava in pietra chiunque la fissasse negli occhi. Non era bastato il nome scaramantico, tuttavia, per evitarne la sorte, colpito dal quarto siluro lanciato dal sommergibile inglese Thorn, un nome che significa “spina”, ironicamente perfetto per adempiere un destino. Il Medusa stava tornando alla base di Pola dopo un’esercitazione, fu affondato al largo di Capo Promontore lungo la costa istriana, erano circa le 14 del 30 gennaio 1942, un giorno freddo di sole e di bora che soffiava da nord-est- c’erano 60 uomini a bordo, morirono tutti.

    Uno spunto giornalistico, quello che dà inizio al romanzo di Pietro Spirito: nell’agosto del 2000, quando l’attenzione è puntata sul sottomarino Kursk che giace a cento metri di profondità sul fondo del mare di Barents e ci si domanda se si riuscirà, se si farà a tempo a salvare gli uomini intrappolati dentro, la telefonata di una persona anziana in redazione comunica di avere rivelazioni da fare. Di avere riscontrato somiglianze nel ritardo dei soccorsi al Kursk, nel mancato accordo organizzativo, con quanto è successo al Medusa durante la guerra. Partono da qui le ricerche del giornalista narratore, dapprima scettico, poi incuriosito, poi intestardito sul risolvere gli interrogativi e i dubbi posti dal vecchio: era stato fatto veramente tutto il possibile in quel gennaio del 1942? O si era solo tentato di salvare gli uomini perché c’erano interessi maggiori della vita di 60 persone? Ed era veramente stato ricuperato l’intero sommergibile un anno dopo? Perché era passata inosservata la sepoltura delle salme? E, soprattutto, c’era ancora qualcuno in fondo al mare?

    E’ un romanzo appassionante “Un corpo sul fondo”. Evitiamo parole abusate come ‘suspense’ o paragoni con romanzi di indagine poliziesca o con i thriller, perché il libro di Pietro Spirito è, sì, un’indagine, giornalistica, storica, ma è anche molto di più. E’ un tassello del passato, un richiamo della memoria, voci e volti restituiti a persone scomparse che non hanno neppure ricevuto gli onori di un’adeguata sepoltura. E nello stesso tempo, mentre il giornalista ricostruisce le ultime ore di agonia del Medusa e dalle sue ricerche affiora il relitto di un precedente sottomarino con lo stesso nome, un Medusa affondato durante la prima guerra mondiale, il presente non scompare mai dalle sue pagine. C’è la figura del vecchio Domenico che ha l’idea fissa di essere sorvegliato dai servizi segreti, tormentato dal rimorso di essere responsabile dell’affondamento del Medusa (non ne aveva forse parlato con una ragazza in una notte d’amore? E non l’aveva poi- anni dopo- vista impiccata? Era una spia?), quella dell’amico morto nel sottomarino e di cui il narratore rintraccia la famiglia (il destino- aveva inghiottito dei bottoni sperando di evitare la partenza), l’anziano scienziato che affida al giornalista il vecchio diario sulla sua esperienza sotto il mare, le immersioni dello stesso protagonista (quanto diversa l’attrezzatura moderna da quella dei palombari di una volta!) e la sua disavventura con le meduse (quelle ‘vere’, il cui nome è Rhizostoma pulmo) che sembrano avercela con lui.
    E sotto, sotto le parole e le tonnellate di acqua, due pensieri, o forse due domande: non siamo tutti dei naufraghi della vita? E non è meglio quella tomba in fondo al mare che nella terra di uno squallido cimitero? Stilos ha intervistato Pietro Spirito, giornalista de “Il Piccolo” a Trieste, già finalista al Premio Strega 2003 con il romanzo “Speravamo di più”.


Un romanzo, una storia vera, un pezzo di Storia su un sottomarino affondato: perché il sottomarino, nella letteratura e nella realtà, ha sempre esercitato un grande fascino?
       Credo che sia perché il sottomarino è pieno di simboli, di significati, è uno degli oggetti umani più carichi di simboli e con più metafore dell’andare a fondo, dello scendere, scendere nell’abisso dell’animo, lo stare chiusi e quindi anche tutto ciò che riguarda la comunicabilità, l’avventura, il rischio, il pericolo, il rimanere intrappolati, la speranza.
Jules Verne aveva capito subito tutta la carica potenziale metaforica sotto la macchina quando, all’epoca in cui si costruivano i primi sommergibili, scrisse “Ventimila leghe sotto i mari”. Il sottomarino è una macchina molto letteraria e, a proposito, forse è bene ricordare la distinzione tra sottomarini e sommergibili, perché nell’accezione comune li si confonde e sono la stessa cosa: il sommergibile è una nave semi-sommergibile, un battello che naviga per lo più in superficie e può andare sott’acqua; il sottomarino naviga prevalentemente sott’acqua. E poi, nella mia scelta dell’argomento, ci sono stati anche dei motivi personali: amo molto il mare e mi piace andare sott’acqua.

Ci incuriosisce sapere, prima di tutto, se lo spunto narrativo del romanzo e le origini della ricerca siano vere: esiste veramente un Domenico C. che non vuole essere nominato?
     Sì, esiste e l’origine del romanzo è proprio quella che si trova nel libro, con la telefonata nei giorni del Kursk.

Il personaggio narrante, il giornalista che fa le indagini sul Medusa, sembra essere Lei: perché ha scelto di entrare in prima persona nel romanzo?
     E’ la prima volta che uso l’io narrante in prima persona, era un po’ un esperimento e mi metto in gioco in tutti e due i sensi: come scrittore e come io narrante. E’ stata una scelta obbligata, quella di scrivere in prima persona, perché la narrazione segue un filo autobiografico ed è la storia di una ricerca che ho svolto. E quindi l’io narrante era una scelta inevitabile; poi c’è il solito gioco di specchi: il giornalista che parla non sono io, e però sono io. Dovendo raccontare la storia della ricerca che si è svolta così come è nel libro, compresa l’indagine sott’acqua, non potevo fare diversamente. Mi è stato molto difficile parlare di me senza parlare di me- cosa d’altra parte che non volevo fare, perché i fatti miei non interessano a nessuno.


All’inizio il giornalista/Lei sembra essere quasi seccato dal vecchio rompiscatole: a che punto è scattato dentro di lei qualcosa di diverso? A che punto l’ha appassionata la vicenda del Medusa?
     Per rispondere devo dire qualcosa sul perché ho scritto il libro: per denunciare gli abusi di memoria. Da anni mi occupo di ricerche di questo tipo, come giornalista e come storiografo. Vivo in una città, Trieste, in cui il peso della memoria è eccessivo. Sono abituato a cercare, a fare immersioni nella Storia. L’interesse per quello che mi diceva Domenico C. è scattato subito, ho capito immediatamente che entravo nei labirinti del passato dove c’è il rischio di perdersi, soprattutto in questa vicenda labirintica. Il romanzo si è costruito mentre lo scrivevo, lo specchio riflette un’esigenza reale, quella di capire quanto è successo.

Uno degli aspetti “magici” del romanzo è il gioco delle coincidenze: la scoperta che sono stati due i Medusa affondati, le meduse marine che La attaccano, il ritrovare dei testimoni per caso, i sogni premonitori. E’ stata una scelta consapevole, come scrittore, inserire questo elemento “magico” nella narrativa?
    E’ stata una scelta consapevole, voluta ma anche inevitabile perché le cose sono avvenute così. Quando si va a caccia di storie, si entra in territori dove queste cose accadono. Lo scrittore è come un radar, scrivere significa mettersi in ascolto, quindi captare segnali del mondo. Quando racconti una storia, sia vera o sia inventata, fai questo: ti metti lì e stai lì in attesa e aspetti che il mondo si riveli. E’ ovvio che in queste situazioni saltano fuori i fantasmi: l’attacco delle meduse, l’apparizione del sottomarino fantasma durante la tempesta- sono cose che sono veramente successe. Come succede che stai lavorando ad un personaggio, cammini per strada e capita che lo vedi. Le coincidenze fanno parte della nostra vita. Siamo in un tutto che è collegato a tutto. Nel momento in cui entri in una storia azioni dei meccanismi. Qui, poi, la storia era bella e pronta, con anche un altro Medusa, affondato in un’altra guerra a poche miglia di distanza, di fronte a Venezia mentre questo era sprofondato al largo di Pola.


Per quello che riguarda le ricerche negli archivi: non mi è parso che la documentazione fosse sempre limpida. Rimangono dei dubbi sulla tempestività dei soccorsi, sul fatto che tutto sia stato tentato per salvare gli uomini nel sottomarino?
      I dubbi rimangono. Ci sono dei testimoni ancora vivi, Brunetto Montagnani che vive in Toscana e che non si trovava sul Medusa perché in licenza: lui è convinto che ci fu la volontà di lasciarli là sotto, quei ragazzi. In realtà, con i documenti alla mano ho consultato degli esperti e l’opinione che prevale è che, in quelle condizioni di mare, quei ragazzi erano spacciati, non si poteva fare niente di più per salvarli. Forse ci sarebbero state maggiori possibilità con un tempo splendido e mare calmo. Vorrei sottolineare che la ricostruzione storiografica di quanto è avvenuto è rigorosissima. Ho sottoposto il testo ad esperti, ingegneri navali, storici, ho fatto una serie di controlli incrociati, lavorando da giornalista. Per quanto il libro sia un romanzo e la cornice sia di finzione, volevo che il nucleo centrale della ricostruzione fosse assolutamente rigoroso.

Nella ricerca di prove Lei descrive la sua immersione sul luogo in cui era stato segnalata la presenza di un relitto che poteva essere uno spezzone del Medusa: che cosa ha provato nel vedere la carcassa dell’U-boot?
     Sono un appassionato subacqueo e sono un visitatore di relitti affondati, non era il primo che vedevo. Il relitto ha un fascino un po’ infantile, è come un pezzo di Storia da riscoprire, ogni immersione su un relitto è emozionante e coinvolgente, come sanno tutti quelli che frequentano relitti. Quello dell’U-boot è uno dei relitti più frequentati. Ormai anche questo è diventato un tipo di turismo, non di massa ma molto praticato. L’U-boot è un grosso tubo di metallo squarciato che non suscita particolari sensazioni. E’ un argomento difficile da capire per chi non è mai stato su un relitto. Nell’immaginario collettivo il relitto lo trovi nei film di genere, nei cartoni animati…Ha un elemento fantasmagorico, ed è qualcosa di fantasmagorico, però ha una sua realtà cogente. Suscita un’emozione particolare, quella del ritrovare un pezzo di Storia precluso ai più, che sopravanza l’aspetto più cupo, più trucido, anche orrorifico del fatto di scendere a visitare un relitto.


Oltre al vecchio Domenico, ci sono altri due personaggi di rilievo: il matematico Rosich e il croato Marcko. Qual è il loro ruolo nella storia del sottomarino?
     Rosich ha il ruolo di appoggio alla metafora, è lo scienziato che parla della sua avventura nel sommergibile come scoperta: il sommergibile come veicolo di scoperta di territori che possono diventare pericolosi. Ed è anche una metafora della letteratura: andare in dimensioni diverse e sconosciute che possono essere pericolose. L’ansia di conoscenza ha un prezzo. Rosich è uno scienziato che, grazie a una formula matematica, ha scoperto che esistono altri mondi e vuole vederli, questi mondi, ci va e vive esperienze terribili al limite della sopravvivenza. Marcko è invece il collegamento tra la guerra passata e le nostre guerre di oggi. Questo è anche un romanzo sulla guerra. C’è una scena in cui il giornalista e Marcko si danno la mano ed è come se scoccasse una scintilla tra due momenti della Storia, tra due guerre: è per far capire che c’è un filo che unisce queste cose, le guerre sono eruzioni della Storia. Marcko ha questo ruolo di collegamento e non è un caso che sia lui che guarda i registri cimiteriali, è lui che colleziona la terra di dove sono state le battaglie: è lui che ricuce una geografia dell’orrore e lo può fare perché è un reduce come Domenico C.

C’è una preoccupazione costante nel vecchio Domenico, l’ansia che il suo amico Cosmina non sia in una tomba. Eppure, proseguendo nella lettura, ci colpisce la sensazione di quanto questa ansia sia inutile: la fine del Medusa è emblematica del nulla dopo la morte?
      Sì, dell’idea del nulla dopo la morte, del grande vuoto su cui siamo seduti. E poi c’è anche la convinzione dell’uomo contemporaneo che si trova a vivere tra le macerie e non sa se c’è qualcosa di diverso da queste. Questo voleva anche essere un racconto su una certa condizione di smarrimento- ho preso in prestito una frase da Marco Lodoli, sulla nostra “epoca dislessica dove passato e presente si scontrano”, a volte crediamo di essere nel Medio Evo e a volte ci sembra di essere nel futuro, a volte ci sfugge il presente: è l’idea dell’uomo perso, come quando il protagonista, durante l’immersione, si perde nell’acqua in profondità senza punti di riferimento, sotto c’è il vuoto, sopra il vuoto. E’ in parte la condizione dell’uomo contemporaneo.

Anche il romanzo precedente “Speravamo di più” era una storia che andava indietro alla seconda guerra mondiale: c’è qualcosa che la attrae particolarmente verso quel periodo?
   
  Sì e no, non ho una propensione particolare verso quel periodo specifico. Ma quello che siamo oggi lo dobbiamo a quello che siamo stati ieri. Per poter decifrare il presente bisogna dare un’occhiata a quanto è successo poco fa. Ho lavorato sulla guerra anche come giornalista, ma è anche una mia passione, questo lavoro sulla Storia. Dopotutto ogni romanzo è un romanzo storico. Se ambiento una vicenda negli anni ‘60, il prologo è nella seconda guerra mondiale. La Storia, per quanto riguarda il mio lavoro letterario, è un pre-testo, che viene prima del testo. E poi c’entra anche la comodità e la pigrizia nello scegliere questo periodo.

E quale è stata la fonte di “Speravamo di più”, con la storia del giapponese rimasto in Italia alla fine della guerra che sembra quasi una notizia da giornale?
      Fra le mie passioni ci sono anche le arti marziali, un’attività molto collegata con il Giappone, capita spesso che vengano dei maestri giapponesi in visita. E capita allora che ci si racconti delle storie. Una di queste parlava dell’amicizia tra un maestro giapponese in Italia e un ragazzo problematico che riuscì a superare, in parte, i suoi problemi con la disciplina delle arti marziali. Poi il maestro tornò in Giappone, il ragazzo sprofondò di nuovo nei suoi problemi, si gettò sotto un treno. E la storia proseguiva dicendo che il maestro si svegliò di colpo, in Giappone, usciva del fumo da un cassetto: era la foto del ragazzo che bruciava. La storia mi era piaciuta, volevo creare un romanzo partendo da un’idea, dal confronto con un’altra cultura, con chi è altro da noi. E mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se un maestro giapponese di arti marziali fosse arrivato in Italia in un’epoca, dopo la guerra, in cui lui era praticamente un alieno…

Un’ultima domanda: come si connette la sua attività di giornalista con il suo scrivere romanzi?
    Il giornalismo e la letteratura sono due universi separati e distanti che talvolta possono avere aree di contiguità, talvolta la letteratura può essere funzionale al giornalismo e viceversa. Ma sono due modi diversi di osservare il mondo: uno informa sul mondo, l’altro rappresenta il mondo.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                                                                    

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